L’otto settembre 1943, con la firma dell’armistizio, molti italiani pensarono che la guerra fosse realmente terminata. Saputa la notizia, a Chiusi, come del resto in tutta la nostra nazione, la gente uscì dalle proprie case per festeggiare. A causa di quella che apparentemente poteva sembrare una giustificata euforia, si formarono immediatamente cortei spontanei che percorrendo le vie cittadine inneggiavano alla pace. Suoni di campane a festa, grida di giubilo, canti patriottici e frasi osannanti l’Italia libera, riempirono ben presto le città ed i paesi. Purtroppo, non era finito proprio un bel niente: il peggio doveva ancora arrivare.
Questo scritto non è la minuziosa cronaca di quei momenti, c’è già chi lo ha fatto e sicuramente meglio di quello che avrei potuto fare io. Non è nemmeno il frutto della raccolta di testimonianze di quello che accadde nei giorni seguenti l’armistizio dell’otto settembre 1943, ma la trascrizione fedele delle memorie di Piero Galeotti (1), allora podestà di Chiusi. Diario che iniziò a scrivere e non portò mai a termine. Si tratta di pochi fogli manoscritti, dei quali sono venuto in possesso alcuni anni fa. Qualcuno, però, potrebbe obbiettare: perché citare proprio le memorie di un uomo che stava dalla parte sbagliata? Semplice! Perché anche queste fanno parte della storia.
Nel maggio 1943 giunsero a Chiusi, con la divisione Tagliamento, piccoli reparti di truppe germaniche specializzate. Dopo la partenza della suddetta divisione, avvenuta nei primi di giugno, fu istallato, per pochi giorni, nelle scuole elementari cittadine, un ospedale militare tedesco, mentre un distaccamento di truppe, pur esse tedesche, si era attendato alla periferia della città. Avevano occupato la incompiuta costruzione per il nuovo ospedale, si erano accampate nei pressi del lago e della stazione ed avevano istituito il proprio comando nella casa littoria (oggi gabinetto di restauro del museo etrusco n.d.r.). Il capitano Haache ed il tenente Raifart erano investiti di tale comando. Tra questi ufficiali e me si stabilirono rapporti di semplice convenienza che si improntarono più tardi ad una certa cordialità nella serena comprensione delle reciproche posizioni e relative responsabilità. Il capitano Haache, che in seguito fu promosso maggiore, era una distinta figura di signore e di perfetto gentiluomo, magro, biondissimo, con occhi azzurri, dall’espressione di fanciullo e dalla fisionomia aperta. Aveva 28 anni, parlava pochissimo italiano ed a lui faceva da interprete il tenete Raifart. Giovanissimo anch’esso, grande mutilato della campagna di Russia (aveva una gamba di legno n.d.r.), dotato di tatto particolare e di sottile intuito.
La popolazione si era mantenuta, nei confronti di questo presidio, in un dignitoso riserbo il che aveva impegnato la truppa ad essere a sua volta riguardosa e disciplinata. La sera avanti il colpo di stato del 25 luglio 1943, la banda militare della divisione germanica, dalla quale dipendeva il locale distaccamento, aveva eseguito nel giardinetto del Duomo un applaudito programma di musica tedesca ed italiana. Per mia intercessione, altro concerto del genere avrebbe dovuto aver luogo al teatro comunale a beneficio della Croce Rossa. Dopo il colpo di stato e dopo aver due volte messa la mia carica a disposizione del prefetto che, mio malgrado, volle riconfermarmi in accordo alla suprema autorità militare della provincia, le mie relazioni con il comando militare germanico si mantennero immutate.
Nel mese di agosto il capitano Haache mi fece, a mezzo del capitano Paolz, formale invito ad intervenire ad una cena che egli ed i suoi ufficiali intendevano offrire alle autorità locali e agli ufficiali italiani presenti, come gratitudine per l’ospitalità loro usata da questa cittadinanza. Accettai l’invito dopo averne chiesta ed ottenuta l’autorizzazione diretta dal prefetto. La cena, alla quale parteciparono il comandante la tenenza dei carabinieri, il reverendissimo Arciprete della Cattedrale (Mons. Nello Mannelli n.d.r.), gli ufficiali italiani comandanti il posto militare della stazione, il nucleo degli antiparacadutisti e i reparti della milizia V.S.N. (Volontaria Sicurezza Nazionale n.d.r.), ebbe luogo in Chiusi scalo all’albergo Centrale. Fu consumata in un’atmosfera di gentile affiatamento mediante una conversazione animata da un francese faticato ed …improvvisato. L’ufficiale più elevato in grado, che mi sedeva accanto, al posto d’onore, si alzò al momento opportuno e lesse in un corretto italiano un brindisi esaltando la gentilezza di Chiusi e dei suoi abitanti, pronunciando voti per la prosperità dell’Italia, del suo Re e del suo popolo. Io replicai nei termini imposti dalla circostanza e colsi l’occasione per invitare, in quel momento, i presenti ad altra cena che noi desideravamo ricambiare nel limite massimo delle nostre possibilità economiche. Questa seconda riunione avvenne alcune sere dopo al ristorante Mainò, in città, con visibile gradimento degli ospiti nostri.
Tali fatti dettero motivo a qualcuno, che non sapeva vedere lontano, per accusarmi di eccessivo cameratismo verso il tedesco. Quello che narrerò appresso, dimostrerà come proprio, in virtù di tali relazioni e cortesie, fu più facile una serena intesa reciproca nel momento in cui le nostre posizioni dovettero radicalmente cambiare. Comunque, queste brevissime pagine di cronaca, non hanno pretesa alcuna e sono state scritte con il solo desiderio che servano a risvegliare, anche nei miei concittadini, il sentimento dell’amor patrio, il senso del dovere e quello spirito di comprensione conciliativa, indispensabile a garantire una convivenza proficua in una società onesta ed operosa ed infine la fierezza di sentirsi, anche nella rovina, italiani, profondamente e solamente italiani.
Ieri a sera poco dopo le ore 20, a Montallese, dove ero accorso per vigilare l’opera di estinzione di un grande incendio colà sviluppatosi, mi raggiunse la notizia dell’avvenuto armistizio. I più, povera gente incapace di valutare la gravità di simili eventi, accolsero tale nuova con manifesta allegria; io che ricordavo in quali differenti condizioni fu stipulato l’armistizio del 1918 ebbi un senso improvviso di sgomento e di trepida incertezza. Come per un ordine prestabilito, tutta la campagna, sino all’orizzonte, si accese di innumerevoli fuochi di giubilo. Il telefono mi avvertì che, in città, alcuni dimostranti percorrevano le vie e si suonavano a festa le campane. Evitai che ciò avvenisse nella frazione dove mi trovavo ed esortai ad attendere lo sviluppo degli eventi, intanto telefonai alla tenenza dei carabinieri raccomandando che si evitasse, per quanto possibile, qualsiasi intemperanza.
Questa mattina, alle ore sette, mentre ero ancora in letto, ho udito in lontananza un coro marziale che sembrava avvicinarsi, io e mia moglie siamo accorsi alla finestra per vedere; era un reparto di truppe germaniche in pieno assetto di guerra che si avviava verso piazza Vittorio Veneto. Mia moglie mi ha domandato: perché questo? E’ l’occupazione. Ho risposto con voluta indifferenza. Quello che da iersera io temevo appariva ora nella sua dura ed inevitabile realtà. Mi sono recato in Municipio con sollecitudine e con ansia indicibile. Ho appreso colà che alla casa littoria sostavano truppe tedesche completamente armate e che ieri a sera, durante la manifestazione, l’automobile di quel comando era stata fatta segno alla sassaiola da ignoti. Sono anche stato informato di un insolito movimento di ufficiali. Telefono alla tenenza dei carabinieri ma la linea è occupata. So che la popolazione, ignara di quanto può accadere è ancora invasa dalla gioia per l’armistizio e numerosi capannelli sostano nelle vie principali. La mia ansia si fa più tormentosa. Sono le ore 10 quando l’usciere mi annunzia che “il tenente dalla gamba di legno (Raifart) chiede di parlarmi”. Dispongo che sia subito introdotto e lo attendo, seduto e calmo, al mio tavolo. I pochi secondi di attesa mi sembrano ore interminabili. Il tenente Raifart entra salutando in corretta posizione di attenti e con il consueto sorriso. Mi alzo, ci stringiamo la mano come sempre, lo invito a sedere mentre io riprendo il mio posto. Per un attimo i nostri occhi si fissano vivacemente come se ciascuno di noi intendesse prevenire le parole.
Lascio che egli parli per primo: Il mio comando, dice, mi incarica di parlarvi di una cosa molto grave; debbo comunicarvi che oggi le nostre situazioni sono cambiate, voi siete in pace ma per noi la guerra continua, perciò dobbiamo premunirci contro qualsiasi sorpresa da parte del governo o dell’esercito italiano, per questo noi assumiamo, fin d’ora, il comando di questo comune. Il mio superiore vuole sapere se voi intendete adoperarvi perché tutto proceda senza incidenti e perché la popolazione si mantenga calma e disciplinata alle disposizioni che dovremo impartire. Sebbene preparato alla sostanza di tale premessa, l’impressione che io provo è indicibile. Comprendo benissimo, rispondo, dite al capitano Haache che farò quanto sarà in mio potere perché nulla turbi le relazioni cordiali che gia esistono fra noi e fra i vostri soldati ed i miei concittadini. Il capitano Haache, risponde il tenente, è partito questa notte, attendiamo l’arrivo del nuovo comandante capitano Dannemberg; ad ogni modo è desiderio mio personale e degli altri ufficiali, che i nostri buoni rapporti, anche nei riguardi della popolazione, rimangano immutati. Quindi mi esprime il suo rammarico perché alcuni sconosciuti hanno ieri sera lanciato sassi contro l’auto del comandante, mi dice che nessuna reazione vi è stata da parte loro sempre in considerazione dell’ospitalità ricevuta, ma mi avverte che, d’ora innanzi, qualsiasi atto del genere sarebbe inesorabilmente e severamente punito.
Mi affretto a deplorare il gesto inconsulto che attribuisco ad alcuni ragazzi sconsigliati ed aggiungo: siate certi che la popolazione sarà come sempre rispettosa e disciplinata; ma a voi, io raccomando vivamente che qualunque cosa avvenga, essa e la mia città siano risparmiate il più possibile e sia loro evitato ogni affronto, ogni sciagura; di questo io vorrei da voi formale promessa. Egli, portandosi la mano al petto mi assicura, con accento che mi sembra sincero e commosso, che quanto io chiedo sarà concesso e mi dice che la truppa non sa ancora nulla della nuova situazione perché dovrà essere opportunamente avvertita sul contegno che dovrà mantenere. Infine aggiunge che comprende come la mia posizione sia ora diventata estremamente delicata e difficile. Prospetta i diversi ostacoli che si presenteranno per il dipartimento degli alimentari e mi comunica che da questa notte tutte le comunicazioni con Roma sono state interrotte. La conversazione assume carattere confidenziale intorno agli ultimi avvenimenti politici, i nostri pensieri coincidono perfettamente ed egli fa alcuni apprezzamenti che, per parola data, non posso rendere noti. Quando il nostro colloquio ha termine esso è durato quaranta minuti.
*Foto Archivio “The face of Asia”
Su un libello che ho pubblicato nel 2009 (titolo: “Nove mesi”, editore Del Bucchia) ho cercato di ricostruire i nove mesi tra l’8 settembre ’43 e il giugno ’44, cioè tra l’armistizio e la Liberazione. I nove mesi di guerra vera vissuti a Chiusi e dintorni. Il tutto attraverso le testimonianze dirette di chi c’era. Tra queste anche una del Podestà Piero Galeotti e una tratta da un libro di Ottiero Ottieri che parlano dei momenti immediatamen te successivi all’armistizio…
E nel romanzetto “Non è stato nessuno”, anche quello del 2009, si parla di un episodio che vide protagonisti il Podestà e il comandante della guarnigione tedesca a Chiusi, forse uno dei “congiurati” anti Hitler che poi finirono male… Personaggi che forse meriterebbero entrambi un approfondimento. Storico, non romanzesco…
Ce ne fossero ora persone come il Podestà Pero Galeotti!
Forse è meglio che non ci siano, verrebbero derisi, a dir poco, e probabilmente morirebbero di crepacuore.
Ricordo Piero Galeotti come persona capace ed intelligente, che seppe nella gravità dei fatti che avvolsero Chiusi costituire una oggettiva risorsa per tutta la cittadinanza. Pensiamo un momento alle condizioni che si trovò a gestire, con occupanti in casa ed al centro lui stesso di una enorme responsabilità, sia come persona sia come rappresentante istituzionale. Era chiaro che le circostanze dell’epoca e di quei momenti facevano comprendere a tutti che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno e Chiusi sarebbe stata al centro di una grande battaglia, con rovine e morti da ambo le parti e nella popolazione.
Lo ricordo come uomo lucidissimo di grande signorilità e cultura,
professore ormai anziano nei primi anni ’60, anche se era stato un amministratore di un governo ormai screditato agli occhi di tanta parte della popolazione che aveva capito bene da quale parti stavano le responsabilità di tanto sfacelo.