C’è da chiedersi quanto l’apparente eccesso di parcellizzazione sia stato deciso in ossequio alla lettera della legge (che di norma prevedeva – si è visto – il ricorso alla suddivisione in “piccoli lotti”) e quanto alla luce di valutazioni locali, su cui possono avere inciso sia la condizione diseguale dei beni nell’ambito di un processo di bonifica avanzato ma non ancora completato (fra i lotti comparivano terreni ancora in fase di colmata) sia sollecitazioni di quell’ambiente economico, sociale e politico toscano e soprattutto fiorentino – di una Firenze che si avviava a divenire la capitale d’Italia – che espresse i principali acquirenti, compresa la francese baronessa Fiorella Favard de l’Anglade, futura contessa di Frassineto, nota anche per i rapporti di amicizia con Napoleone III, che proprio della sua villa di Firenze fece un grande centro di cultura dove si potevano incontrare i maggiori intellettuali ed artisti del tempo.
Sicuramente la vendita liberò lo Stato centrale dall’onere di amministrare le quasi 4.000 persone (3.905 per l’esattezza) che alla fine del 1861 vivevano nelle 10 fattorie.
Altrettanto sicuramente la frammentazione delle ex proprietà granducali agì sul sentimento d’identità di quelle persone, contribuendo a recidere il legame, innanzitutto di riconoscenza e di appartenenza, potremmo dire di ‘orgoglio aziendale’, verso una dinastia, quella dei Lorena, che tanto aveva contribuito alla rinascita della valle e al miglioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti, reinvestendo, nel tempo, i proventi dell’attività agricola e dell’allevamento in interventi pensati per un’integrale costruzione del territorio: bonifiche, infrastrutture, abitazioni, sistemazioni agrarie, manutenzione ambientale.
Riflesso di tale sentimento si ritrova nelle parole di una turista inglese, Elizabeth Caroline Hamilton Gray, che visitò Chiusi e la zona nel giugno 1839:
“Ai locandieri e ai contadini piaceva, dovunque, portarci alla finestra e mostrarci il panorama, dicendoci: Tutto questo appartiene al nostro sovrano. Quella è la sua fattoria, guardate come è ben tenuta; quel terreno fu da lui bonificato, quella strada è fatta da lui. Ci assicuravano poi, che tutte le cose necessarie e le benedizioni della vita, il grano, il vino e l’olio, erano in nessun luogo così buoni, a buon mercato e abbondanti, come in Toscana.”.
Già nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, una prima riflessione storica sulla vendita fece levare voci critiche contro di essa, giudicata non vantaggiosa da personaggi dotati di forti sentimenti civili e di appartenenza alla valle come Giovan Battista Del Corto e Pietro Cappannelli.
Il primo – si è visto in apertura – mise in luce la sproporzione tra la qualità delle fattorie e il ricavato non alto della cessione.
Il secondo, anche a seguito delle leggi e decreti sulla bonifica del 1865-68 che avevano imposto il concorso delle Province e dei privati, nella sua Monografia sulle condizioni agrarie del comune di Cortona, del 1888, scrisse: “…così il nuovo Regno d’Italia vendendo le dieci fattorie di Val di Chiana e incassandone il prezzo, si aggiudicava il premio gratuito di un’opera non ancora compiuta, imponendo alle Provincie e ai cittadini l’onere e la spesa del compimento dell’opera”.
Le valutazioni di Del Corto e di Cappannelli sembrano del tutto condivisibili anche ad un autorevole autore contemporaneo, Gian Franco Di Pietro, per i reinvestimenti sul territorio dei proventi dell’attività delle fattorie, di cui si è già trattato, e perché “si rinunciava, con la privatizzazione, ai vantaggi di una direzione unitaria degli indirizzi produttivi e della sperimentazione agronomica, quale si era attuata tra metà ‘700 e primi ‘800, di un territorio assai fertile ed esteso, di una dimensione compresa tra i 2/3 e i 3/4 della superficie agraria dell’intera Valdichiana.” [G.F. Di Pietro, Atlante della Val di Chiana. Cronologia della bonifica, 2006].
Lo stesso Di Pietro prosegue sottolineando “come questa vicenda porta in primo piano una nuova classe dirigente politico-finanziaria-imprenditoriale, introducendo nei dispositivi del processo di privatizzazione procedure e modalità congruenti con le nuove strutture economiche che si stanno affermando, destinate a soppiantare la vecchia aristocrazia fondiaria insieme con le forme del governo di famiglia lorenese”.
La suddivisione in “piccoli lotti” compatibili “cogli interessi economici, colle condizioni agrarie e colle circostanze locali” era una di queste “procedure e modalità congruenti” – si badi bene – non tanto all’affermarsi della piccola proprietà contadina quanto, stante la flessibilità che assicurava alle dinamiche dominicali, al riaccorparsi su basi funzionali e dimensionali diverse della proprietà fondiaria.
Alcuni esempi.
Tutti i 44 lotti della fattoria di Montecchio furono acquisiti dal Cav. Giacomo Servadio, finanziere e anche socio editore della Nuova Antologia, in società con il Sig. Leopoldo del fu Giuseppe Trivulzi, presidente della Casa Trivulzi Hollander e C. di Parigi, con il quale costituirà poco più tardi la Società Anonima dei Beni Demaniali di Val di Chiana, l’impresa che poi acquisì alle aste anche alcuni lotti delle fattorie di Bettolle, Creti e Foiano.
Anche la fattoria di Abbadia fu quasi integralmente acquistata dal barone Bettino Ricasoli in società con il conte Pietro Bastogi (per inciso: dall’ex Capo del Governo e dal suo ex Ministro delle Finanze poi divenuto presidente della Società italiana per le strade ferrate meridionali) e sempre Bettino Ricasoli rilevò una parte consistente dei lotti della fattoria di Acquaviva (in questo caso si parla ufficialmente della Società Anglo Italiana Italian Land Company Limited da lui rappresentata), mentre tra i numerosi acquirenti degli altri lotti troviamo la Principessa Maria Bonaparte del fu Luciano Bonaparte vedova Valentini di Perugia.
Il caso di Dolciano è esemplare.
La fattoria, che constava di 19 poderi, era stata venduta al pubblico incanto il 29 dicembre del 1864 e assegnata a più possidenti.
Alla chiusura dei conti il suo agente, dipendente della Direzione Generale dei Reali Possessi dello Stato in Toscana, consegnò all’incaricato dei ‘resti di Valdichiana’ denari contanti pari a lire 3.273 e centesimi 23, più i due poderi delle Paccianese e di Fonterotella rimasti invenduti, con 14 capi vaccini, due cavalli, 50 maiali e varie bestie minute.
Nel 1877 il podere di Fonterotella era ancora demaniale, ma nel 1888 lo troviamo nuovamente integrato nella Fattoria suddetta, passata, salvo alcuni poderi, alla famiglia Bologna di San Casciano dei Bagni.
Significa che quest’ultima aveva progressivamente ampliato le sue proprietà con l’acquisto in successiva battuta di altri lotti dell’originario possedimento granducale.
Altri terreni avrebbe acquistato anche in seguito per colmata (ancora nel primo trentennio del Novecento nella Carta Idrografica della Val di Chiana 1/50.000 è segnata come ancora in corso la grande colmata Bologna, tra il Parce e il Fosso alla Ripa).
La vendita dei poderi e la disgregazione di una recuperata unità produttiva cominciò solo fra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, nel timore di un’imminente riforma agraria.
Anche per quanto ho scritto sopra, ritengo che fenomeni quali l’affermarsi massiccio delle colture intensive e la scomparsa di tantissime specie vegetali siano fenomeno essenzialmente del secolo scorso e non di quello precedente. In particolare penso che la conservazione di quelle specie di cui ora si lamenta la scomparsa sia stata frutto della mezzadria, per il forte carattere autarchico che caratterizzava tale conduzione, in quanto il mezzadro doveva garantire attorno a sé un ambiente dove poter trovare tutte le risorse necessarie alla sussistenza della sua famiglia ed all’espletamento del suo lavoro (i consorzi agrari nell’Ottocento erano ancora lungi a venire..).Non si spiegherebbe del resto altrimenti la memoria viva che ancora nonni e genitori o amici legati a quel mondo hanno ancora di piante divenute rarità, relitti, nelle nostre campagne.
Per completare il discorso , anche per quanto ho appena scritto, ritengo che l’introduzione delle colture intensive e la scomparsa di tantissime specie vegetali non possano essere fenomeni legati alla fase storica in questione ma siano piuttosto prodotto, in particolare il secondo, della fine della mezzadria e comunque del secolo scorso. La conduzione mezzadrile aveva infatti una forte componente autarchica, in quanto il mezzadro aveva bisogno di ricreare attorno a sé un ambiente vegetale ricco di tutte le essenze necessarie alla sussistenza della sua famiglia, destinate all’autoconsumo e non al mercato. Non si spiegherebbero altrimenti le conoscenze che ancora i nostri nonni e (alcuni) genitori hanno di piante e frutti che ormai nelle nostre campagne sono divenuti rarità. Aggiungo – tornando al tema storico delle fattorie granducali e in particolare di quella di Dolciano – che il riaccorpamento all’originario complesso produttivo di lotti di terreno rimasti invenduti fu anche quello di recuperare terreni, in genere collinari e persino boscati, che aggiungevano capacità di diversificazione produttiva, soprattutto con colture specializzate e di pregio come quelle dell’olivo e della vite e magari con l’allevamento di maiali allo stato brado nei boschi. E’ questo un elemento da tenere in considerazione soprattutto in un’epoca, come il ventennio centrale della seconda metà dell’Ottocento, segnata da una crisi gravissima della produzione agricola europea causata dall’importazione massiccia di grano americano a basso costo.
Ieri sera credevo di aver risposto, ma non ne vedo traccia, per cui… in parte ripeto e in parte approfondisco, per quanto i dati certi andrebbero trovati analizzando i libri dei conti delle fattorie. Ieri sera osservavo che nel territorio di Cetona ancora nel 1926 venivano lamentate pratiche colturali miste che sono chiaramente attestate a Chiusi nel catasto particellare degli anni ’80 del sec. XVIII. Citavo infatti un passo del libro di Carlo Corticelli “Notizie e documenti sulla Storia di Cetona”, p. 4, secondo cui “Su questi terreni, destinati alla vite e all’olivo, fossero esclusivamente occupati dall’olivo e dalla vite, la cultura nulla lascerebbe a desiderare, ma siccome noi vogliamo ‘aver tutto da per tutto’, così vengono frammisti viti, olivi, alberi pomiferi, e quasi ciò non bastasse, si praticano seminagioni di cereali d’ogni specie. …. La pianura, che dovrebbe esclusivamente destinarsi ai cerali, ai legumi, e alle piante tessili, per le quali fu celebre un giorno Cetona, è ovunque alberata, con danno delle sementi.”
Ok, molto meglio. Grazie. Altra domanda: ritieni che questo tipo di destrutturazione abbia avuto ripercussioni sulle colture? Ad es., più grano e meno ortaggi o frutteto (perché magari conveniva un sistema di sfruttamento intensivo, da abbandonare in seguito a variazioni di mercato); e pensi che forse questo stia alla base della letterale sparizione di centinaia di specie (penso alla pera “cocomerina” o altre specie che sono documentate presenti fino alla fine degli anni 30 e poi letteralmente sparite)? Non so se hai dati in proposito.
Il criterio ispiratore della legge che prevedeva la vendita in piccoli lotti mirava a favorire il formarsi della piccola e media proprietà, essendo ostile di principio al latifondo, e nello stesso tempo a garantire allo Stato introiti certi dalla vendita almeno dei lotti migliori, posta una certa diseguaglianza qualitativa con quelli che erano ancora interessati da processi non conclusi di bonifica (soprattutto nella zona meridionale della valle). Ciò non impedì quello che in effetti accadde, subito all’atto della vendita e in seguito, quando coloro che erano subentrati alla gestione demaniale, come i Bologna, consolidata l’organizzazione produttiva, mirarono ad ampliare la proprietà, cominciando dai terreni più prossimi che già erano appartenuti alla fattoria. Spero di aver chiarito meglio quanto credo di avere intuito.
Diavolo, ho passato il limite capestro caratteri!
Roberto, complimenti. Sono d’accordo completamente sul fatto che la parcellizzazione delle fattorie abbia affievolito il senso identitario dell’appartenenza a un’entità più vasta. Ed è chiara la strategia di “dismissione” – come diremmo oggi – di quanto viene vissuto e presentato come un peso ma che sembra più un regalo ai nuovi rentiers. Non riesco però a seguire quanto affermi circa il riaccorparsi su dimensioni funzionali della proprietà frammentata (del resto, non sono pochi quelli che ricomprano interamente e d’un colpo quanto era stato frammentato). Potresti dare qualche elemento in più su questo punto?