Scriveva nel 1832 Attilio Zuccagni Orlandini nel suo Atlante geografico, fisico e storico del Granducato di Toscana: “il vasto alveo palustre dei fetidi stagni è ora ridente di ricche messi e di vigne; la riacquistata salubrità del clima ha ridonato agli abitanti l’antico vigore, e la copia delle raccolte fa loro gustare i comodi della vita. Questa valle è diventata un suolo di delizie”.
Ma già dieci anni prima i limiti del metodo della colmata integrale seguito nella bonifica erano stati messi in evidenza dall’ingegnere Alessandro Manetti, che proponeva correttivi, in primo luogo col progetto di “procurare uno smaltimento più energico delle acque del Canale Maestro con l’apertura di un canale laterale alla Chiusa” (quei s’intende la Chiusa dei Monaci di Arezzo, attraverso la quale il Canale Maestro della Chiana riversava le sue acque in Arno).
Il suo convincimento era che l’impiego delle colmate avesse ormai raggiunto il suo scopo, ma che le gravissime le condizioni dei fiumi colmatori, per l’avvenuto sopraelevarsi dei loro alvei, rendesse necessario dare un assetto definitivo allo scarico delle torbide, che non potevano immettersi direttamente nel Canale Maestro, data la sua deficiente pendenza.
Il rischio era che – come ebbe ad affermare nel 1840 nella pubblicazione Sulla stabile sistemazione delle acque di Val di Chiana – che se non si provvedeva al corretto ed efficiente deflusso delle acque degli influenti la pianura colmata sarebbe andata “ben tosto a ricadere nell’antica sua condizione”.
Di fatto le sue idee mediavano tra due metodi di bonifica: quello per colmata, sino allora adottato sotto l’impulso del Fossombroni, e quello per essiccazione, proposto nel sec. XVII da Enea Gaci, di Castiglion Fiorentino, e condiviso da Galileo, che avrebbe dovuto vedere lo sprofondamento e l’allargamento del Canale Maestro, la demolizione della Pescaia dei Monaci, la riduzione del livello di 2/3 braccia, nonché la formazione di cateratte e di un regolatore ai Ponti di Arezzo per evitare una troppo rapida immissione delle acque in Arno e la riunione contemporanea delle piene di questo fiume con quelle della Chiana.
Egli ebbe occasione di applicarle negli oltre vent’anni (1837-1859) in cui rimase al vertice della Direzione del Corpo degli Ingegneri di Acque e Strade, l’organismo dal quale dipendevano tutti i grandi interventi di bonifica.
La scelta di aumentare la capacità di richiamo delle acque del Canale Maestro verso l’Arno ebbe un effetto positivo sullo smaltimento delle piene della Valdichiana, verificato con successo durante la grande piena del 12 novembre 1839 e anche in occasione della grave alluvione che colpì Lucca e Pisa nel gennaio 1844 e che non risparmiò neppure questa valle.
Quella ancor più grave del successivo 3 novembre, anche perché a subirne gli effetti disastrosi questa volta fu Firenze, vide invece il Manetti investito dalle pesantissime accuse di averla favorita con l’intervento di sbassamento della Chiusa.
L’Ingegnere capo, nella Memoria pubblicata il 25 ottobre 1849, riuscì comunque a confutare la fondatezza di tale ipotesi tramite argomentazioni scientifiche e misurazioni idrometriche che dimostravano l’apporto preponderante della Sieve, mentre “nel presente caso si avea la certezza che la Chiana non aveva avuto piena insolita, e le sue acque scese in Arno erano giunte a Firenze molto dopo la piena che produsse disastro e quando Arno era già rientrato in suo letto”.
Tre lustri più tardi prese le sue difese anche l’Ing. Carlo Possenti, direttore del Genio Civile di Arezzo, l’organismo che con lo Stato unitario aveva preso il posto della Direzione del Corpo degli Ingegneri di Acque e Strade granducale.
Sua anche l’annotazione polemica che “non segue mai mezza piena dell’Arno, che valdarnesi e fiorentini non ne incolpino la Valdichiana, e lo abbassamento di sette braccia fatto subire alla chiusa dopo il 1825”.
Era un’accusa antica, quella della minaccia rappresentata dalle acque della Valdichiana, condivisa anche nella capitale a sud.
Infatti, senza dover risalire al progetto di deviazione della Chiana in Arno sottoposto senza esito al Senato romano nel 15 d.C. [Tacito, Annales, Libro I, 79], una preoccupazione del genere fu assunta a motivo, o piuttosto pretesto, all’indomani della disastrosa alluvione di Roma del 24 dicembre 1598, dell’erezione al confine col territorio di Cetona dell’Argine di Clemente VIII, che dal Poggio dei Cavalieri si estendeva fino al Poggio di S. Bartolomeo.
Tale Argine (o Bastione) – come scrive Silvì Fuschiotto – “rappresentò l’ennesimo atto della schermaglia che da secoli si consumava tra i due stati confinanti” così che “il torrente Astrone e gli affluenti tornarono ad inondare il piano di Cetona ed il Governo toscano ne ordinò la deviazione nel Piano delle Cardete, a nord del Poggio Cavaliere. I terreni precedentemente disseccati ripreso ad allagarsi ed una nuova, interminata serie di interventi arbitrari finì col vanificare i precedenti interventi; l’auspicata concertazione dovette soccombere innanzi alle politiche territoriali individuali che risultarono ben presto deleterie per l’equilibrio idrico della valle”.
Quanto accadeva in quegli anni è estremamente importante per comprendere i problemi e gli interessi in gioco e i futuri sviluppi della disciplina idraulica della valle, in particolare nell’area più ristretta attorno a Chiusi, che aveva sue peculiarità, in primo luogo quella di estendersi a ridosso di un confine.
La relazione, scaturita dalle ricognizioni seguite al concordato del 14 novembre 1600 stipulato fra il Commissario Apostolico Monsignor Dandini e il Segretario Granducale Usimbaldi (“Stato antico delle Chiane fatto in una relatione volgare con lo stato moderno di esse con le distanze da un luogo all’altro con le larghezze di essi”), testimonia l’evoluzione delle Chiane in un arco temporale di poco inferiore al secolo. Vi si afferma che prima che agli immissari fosse imposto un nuovo corso “le Chiane erano picciole acque […] che in alcuni luoghi vi passavano i pastorelli saltando con un bastone e gareggiando” e “i fiumi venivano torcendo hora in una parte, et hora in un’altra, dimodoche non correvano con quella velocità che fanno hoggi” mentre “le terre che erano dalla Vena della Chiana in qua verso lo Stato della Chiesa”pur in molti punti “paludose et infette dall’acque dell’inverno” in altri erano ancora terre buone per l’agricoltura o l’allevamento brado “et anco per legname per forni, et fornari, et per falciar fieni, scarcia e far cannucce”.
È il ritratto di un ambiente palustre col proprio equilibrio idraulico ed una vocazione produttiva ‘tipica’, capace di offrire utilità alla società che vi gravitava attorno.
Vorrei spezzare una lancia a favore di Luciano Fiorani, per la bravura con cui ha impaginato, illustrato e (per chi non lo sa) sezionato in agili articoli i miei scritti. Per questo, egoisticamente, ho motivi in più per preoccuparmi per il disimpegno che minaccia (o già attua) dal Blog e per augurarmi che le attuali divergenze si appianino… Se ciò non fosse mi sentirei vittima di una cattiva sorte, proprio ora che avevo preso gusto a scrivere in questo spazio…
Grazie per la citazione, caro Roberto!!!! Fa piacere vedere che qualcuno quel libro continua a tirarlo giù dalla libreria e non solo per togliere la polvere come faccio io!!!! 🙂
attendiamo con molta attenzione quanto ancora così bene e in modo piacevole saprà e vorrà scriverci
Grazie Roberto. Tutti vagamente sanno delle bonifiche e il nome del Fossombroni è il nome di riferimento. La complessità delle lunghe e complesse operazioni della bonifiche sono sconosciute a quasi tutti noi. La traduzione in lingiuaggio semplice di una letteratura poco accessibile è lavoro davvero meritorio.