L’impossibilità fotografica di un tempo e la normalità di oggi

di Carlo Sacco

Talvolta basta un’immagine a farci capire che il mondo è cambiato. Il dilemma è se in bene od in male. La civiltà dell’immagine pone in continuo divenire le forme, i colori, le dimensioni di quanto ci circonda e nell’approccio costante a queste entità si dipana la nostra azione e la nostra interpretazione.

Il 15 Ottobre c’era aria di tempesta a Chiusi, a sera inoltrata, e le nuvole si addensavano nel cielo, formando una coltre pesante in continua trasformazione. Non me n’ero accorto poichè stavo scrivendo, ma mia moglie mi ha chiamato e mi ha fatto notare lo spettacolo dalla finestra.

Ho preso la macchina fotografica digitale, ho montato un obbiettivo grandangolare molto spinto, un Nikkor AF 17-35 f 2,8 e sebbene non sia stato mai profondamente convinto della metodologia digitale (pur riconoscendone la praticità e la comodità) ho scattato una prima immagine tarando a 1600 ASA il sensore, poiché la luce del cielo non sarebbe stata sufficiente a riprendere una immagine esposta correttamente. Chiaramente una sensibilità di quel livello impostato tende a sovraesporre i luoghi di luce vicini ma ad evidenziare in maniera accettabile quelli lontani dove l’occhio umano non riesce a cogliere la luce che comunque esiste.Il risultato è stato questo che vediamo nella foto e sembrerebbe a prima vista che si fosse intervenuti posteriormente allo scatto con Photoshop per accentuare i contrasti mentre posso assicurare che tutto questo non è stato minimamente usato e l’immagine che vedete, così si è presentata nello schermo sul retro della fotocamera.

Una riflessione lapalissiana è d’obbligo osservando la foto: una immagine così con una fotocamera analogica non sarebbe mai stata ottenuta se non dopo diversi scatti di prova con misurazioni esposimetriche varie e diversi tentativi, chiaramente non avendo poi la sicurezza del risultato. Il materiale invertibile (Dia) ben difficilmente avrebbe dato tali tonalità al cielo e lo stacco differenziante la terra dal cielo non sarebbe stato tale. La tendenzialità alla sovraesposizione di 1 diaframma e mezzo con una velocità di scatto di 1,3 secondi e la fotocamera appoggiata a mano sul davanzale della finestra hanno fatto il resto a diaframa 2,8.

Per confronto e commento allego un’altra immagine, questa si analogica, scattata quasi in notturno e proveniente da materiale invertibile (Dia) alla luce della luna molto diffusa. Siamo sul delta del Mekong ed una barca di pescatori rientra a casa lentamente di sera. L’obbiettivo usato è il medesimo ma la sensibilità della pellicola impiegata era molto alta per la luce esistente in quel momento. Sarebbe stato auspicabile l’uso di un flash per l’esistenza della bassa quantità di luce, ma anche se l’avevo con me ho voluto non impiegarlo, e usando un’istantanea lenta a mano libera ho seguito lentamente il movimento in senso contrario al mio della barca.

Un’operazione questa dalla quale non si riesce quasi mai ad ottenere immagini accettabili in tali condizioni di luce ma quella volta la fortuna l’ho avuta dalla mia parte. Il risultato non è paragonabile alla difficoltà impiegata nella foto precedente di Chiusi (che è quasi nulla).Quella del Mekong è senz’altro di maggior difficoltà anche se il limite è segnato dai dettagli sulle persone e della terra ferma. I dati tecnici non dovrebbero essere distanti da f/2,8 a 1/2’’ secondo con pellicola Kodak Ektachrome 200 Asa Professional, la cui sensibilità non aiuta il dettaglio ma è essenziale per impiegare i tempi a mano libera.

Con tutto questo discorso ho voluto sottolineare solo un concetto forse banale: le foto impossibili di una volta oggi diventano normalità girando una rotellina. Se non piace si vede subito, non c’è alcuna spesa, si cestina, oppure si corregge nelle tonalità e nelle esposizioni.In questo modo tutti possono avere buoni risultati finali.Con la metodologia analogica, però -lasciatemelo dire- è un’altra poesia…

 

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14 risposte a L’impossibilità fotografica di un tempo e la normalità di oggi

  1. Ribadita la mia completa ignoranza, leggo nell’introduzione: ” Scansioni ai raggi x di ciò che ci circonda è il cammino intrapreso da Riccardo Del Fa ….” L’ultima fotogtafia del catalogo ritrae Del Fa inginocchiato in terra accanto ad un treppiede e un oggetto (immagino una macchina fotografica) appoggiata in terra.

  2. carlo sacco scrive:

    X Gherardi. Mi suona strano che esistano macchine fotografiche a Raggi X, di sicuro macchinari che appoggiati sul terreno leggono quello che c’è sotto ad una distanza di qualche metro esistono e sono impiegati per le rilevazioni soprattutto archeologiche quando si vuol individuare le strutture sotto terra.Sono apparecchiature delle quali adesso mi sfugge il nome ma le ho viste anche all’opera a My Son nel Quang Nam(Vietnam)nel 2000 per fare la mappatura completa del sito archeologico da parte dell’Istituto Lerici di Roma e del Politecnico di Milano.Sono molto attendibili e forse Gherardi ha visto questo genere d’intervento.Personalmente devo dire che è utilissimo ma una mostra fotografica che sia basata sulla rappresentazione della continuità delle strutture in superficie con quelle rilevate sotto non è che mi faccia impazzire.Comunque senz’altro come rappresentazione della realtà è una cosa da considerare e che può essere impiegata anche per rendere l’idea complessiva di una struttura.Ricordo che tempo fa alla TV la fecero vedere impiegata dalla Finanza per la rilevazione di strutture sotterranee quali nascondigli della mafia.

  3. La mia competenza fotografica
    è nulla, ma in questi giorni mi è capitato di vedere una mostra a Piombino così concepita: il fotografo è andato in giro nel centro città con una macchina a raggi X. In punti non so come determinati, si appoggiava in terra e fotografava oggetti sotto l’asfalto.. Alla fine la mostra era costituita da strutture ciascuna con due fotografie: quella in basso ritraeva l’oggetto “sotterraneo” l’altra il palazzo o la parte di cielo che l’ogetto “vedrebbe”. Una curiosità, ma piacevole.

  4. carlo sacco scrive:

    ….troppo buono Carlo Giuietti e non è per falsa modestia ma non lo merito,….ma se davvero dovessi pensare a tutte le foto che ho perso in vita mia per non essere stato pronto o non aver visto la realtà irripetibile che ti passa vicino un secondo prima,potrei scriverci un vocabolario, altro che 3 articoletti per spiegare una foto…Nella fotografia di reportage quello che più conta è saper vedere prima che avvenga quell’ azione che si dipana di fronte a te e saper vedere se è degna di essere ripresa oppure no.Tutto il resto(tecnica,inquadratura, impostazione dati ecc ecc) anche se non è ”accessorio”,viene comunque dopo.Decisamente!

  5. Una volta ho avuto l’occasione di presentare a Cetona una mostra fotografica di Jay Mark Johnson (si dedica alla fotografia con l’impiego di una speciale macchina motorizzata che blocca le immagini in una dimensione spaziale nel loro asse verticale, mentre sull’asse orizzontale viene impresso il passaggio del tempo. Lui ha partecipato agli effetti speciali nei film di Matrix). Ebbene, nella mia ignoranza tecnica riuscii comunque a far percepire al pubblico quello che io vedevo nelle sue fotografie. Scrissi che quelle foto erano qualcosa che investivano l’animo, il pensiero, la riflessione, l’idea di colui che si pone davanti ad un’immagine che rappresenta un “mondo reale diventato irreale” sul quale compare la figura umana riconoscibilissima ma a volte evanescente tra la sua vera natura ed essenza. Comprendo benissimo il tuo andare oltre i 1400 caratteri….quando discuti nel blog o scrivi dei tuoi lavori fotografici…

  6. Carlo Giulietti scrive:

    Poco tempo fa ho avuto il privilegio di poter vedere alcune immagini di Carlo Sacco e altre della sua collezione privata, per quel poco che ne capisco, meriterebbero di essere esposte in una galleria permanente.
    Se la fornace dovesse essere miracolosamente salvata in tempi brevi e destinata anche ad usi culturali , una bella sala gliela dedicherei.

  7. enzo sorbera scrive:

    Si, letteratura allo stato puro. Bellissima la descrizione della “messa in posa” delle braccia del vogatore. Però mi piacerebbe si tornasse al problema che Carlo solleva e cioè che il digitale, seppur comodo, distrugge il saper fare, la creatività del dover inquadrare l’asfalto e sintonizzare il proprio tempo sul tempo dell’altro che passa a una velocità quasi impossibile. Mi ha ricordato la canzone di Dalla: “Nuvolari, cinquanta chili d’ossi, Nuvolari ha un corpo eccezionale….”. L’eccezionalità/unicità del proprio essere persona.

  8. carlo sacco scrive:

    D’altra parte Mercanti che ci vuoi fare,magari io avessi solo tali limiti….c’avrei fatto la firma,te lo garantisco.Per la ” letteratura” ormai nel blog siete/sono avvezzi non solo alla mia prolissità,ma ti faccio una confidenza: ho sempre pensato che il mondo non vada tanto bene non solo per il pensiero unico sul ”modo di produzione”al quale molti cervelli che si ritengono liberi hanno votato la loro vita(il risultato si vede intorno a noi)ma l’hanno anche immolata sull’altare della produttività non col minimo sforzo ma col massimo, sacrificando molte energie utili che avrebbero potuto impiegare in altre direzioni.Non sò se il tutto sarà nocivo per questi,sono misure personali che ognuno si dà,a seconda di quello che si crede di essere,di come si ascolta e del carattere che ha,ma tendenzialmente propendo per lo slow food.Godo di più.Ma può essere un illusione anche questa eh ‘….Ritornando al processo fotografico poichè di quello si parlava,Eugene Smith-che un po’ di fotografia se ne intendeva,disse un po’ sarcasticamente una volta:”a che serve in fondo una grande profondità di campo se non c’è una adeguata capacità di sentimento ?”Forse qualche correlazione con i miei 3 articoli che cercano di spiegare il perchè di 80 scatti per averne 1 ce la trovi.

  9. Quando leggo un post di Carlo Sacco come questi in risposta a Carlo Giulietti mi sembra di leggere uno dei tanti capitoli di CITY di Alessandro Baricco… è grandioso! Ottanta scatti per vederne uno in cui leggi l’ora sull’orologio del pilota… ditemi se questa non è letteratura!

  10. carlo sacco scrive:

    XGiulietti:…ecco me n’è venuta una sola, ma su quella seppur ingrandita si legge l’ora sull’orologio di Jochen Rindt che dentro l’abitacolo della sua Cooper Climax e senza fazzoletto sul viso ma col solo casco ha le labbra della bocca contratte nell’affrontare la curva. E’ una questione di pura fortuna a quei limiti di scatto e non perchè uno possa essere bravo o meno ma si vede che dentro a quegli 80 scatti per uno scatto solo l’otturatore si è alzato e riabbassato ad 1/500” in corrispondenza del fuoco che avevo fissto prima.
    Se ci provi 400 volte anche con lo stesso metodo non la fai: o la fai sfuocata o mossa, mentre in detta foto l’asfalto è una striscia mossa ma la macchina col suo pilota è ferma al punto che gli leggi l’ora sull’orologio e la scritta Climax sulla testata del motore. E’ la stessa storia di uno dei miei primi spari con la doppietta quando andavo a caccia con mio padre. Sparai ad un beccaccino -un tiro difficilissimo- e lo presi. Ma lo presi solo perchè per sua sfortuna passò dove avevo messo il piombo io. Oggi con gli autofocus queste foto le fa anche un bambino e la macchina scatta quando il soggetto è a fuoco perfetto, sennò non scatta.

  11. carlo sacco scrive:

    X Giulietti:Nel 1966 durante il G.P.d’Italia di F1 a Monza ero su di una specie di cestello in curva parabolica e le macchine passavano sotto di me a circa 10 metri di distanza ad una velocità di circa 130-150 km/h.Il mio problema era che all’epoca non avevo un tele quindi non potevo avvicinare il soggetto.La velocità massima di scatto di detta fotocamera(una Topcon PR Reflex che ancora posseggo)era di 1/500”- altissima per l’epoca.-Dopo avere” scaciato” quasi una buona ottantina di scatti(ed erano soldi perchè il digitale non si sapeva neanche cosa fosse a quell’epoca quindi dovevo cambiare i rullini quando li terminavo)imparai-ma vi venne lì per li-a mettere a fuoco i grani dell’asfalto quasi proprio sotto di me ed a centrare col mirino le macchine che dovevano entrare nella zona del fuoco e a pigiare lo scatto prima che fossero dove avevo messo il fuoco sull’asfalto,acccompagnandone il movimento con la macchina dotata di un 50 mm.molto luminoso ma sempre un 50 mm.era.

  12. carlo sacco scrive:

    X Carlo Giulietti.Si,ero su una barca ferma e l’altra barca oggetto della ripresa avanzava molto lentamente controcorrente.Se tu guardi lo sfondo della terra ferma non è fermo ma è mosso anche se un micro mosso(e per forza non sono mica un mago…).Essendo un grandangolare di 17mm(quindi molto spinto)i tempi di movimento del soggetto sono meno percettibili ma è una operazione questa che se la fai 100 volte di seguito forse in nessuna delle 100 foto ti riesce,soprattutto rispetto ai vicini.Ho seguito con la macchina lentamente il movimento della barca che andava lentissima ed ho scattato una serie di foto,ce n’ho poco meno di una decina ma tutte sono o mosse o sottoesposte,questa è la più accettabile.Il fatto che dici tu Carlo del non movimento dello sfondo che invece se lo guardi bene esiste sul fondo del cielo è secondo me dovuto alla lontananza della terra ferma e dalla luce diversa da una sera di luna dalle nostre parti.Per esempio il movimento delle braccia del rematore è stato fermato quando aveva le braccia ferme e non durante tutta l’escursione delle braccia stesse dal basso verso l’alto e viceversa.Potrei portarti un altro esempio che riguarda il fuoco,ma per ragioni di spazio ci vuole un commento seguente.

  13. Carlo Giulietti scrive:

    poi mi spiegherai come hai fatto a mantenere lo sfondo fermo, muovendo la macchina, nella foto del Mekong. Eri anche tu su una barca?

  14. giorgio bologni scrive:

    grazie per averci trasmesso e insegnato questa esperienza e complimenti

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