Abbiamo visto come la società medievale presenti un meccanismo di socializzazione particolarmente “pubblico”, che l’esagerazione dei numeri romanzeschi restituisce in tutta la sua forza. E’ un meccanismo che, se da un lato sottopone l’individuo a un “controllo” continuo, dall’altro lato lo fonda come soggetto essenziale della e per la comunità. Una “fibra dell’universo”, per dirla col poeta.
Che poi sia più o meno “docile”, è faccenda secondaria. L’offrirsi allo sguardo altrui è un darsi secondo forme che si fanno liturgia – e, sin d’allora, non abbiamo più smesso – . In questo quadro, l’abito è un elemento essenziale: mostra e dimostra la posizione sociale di chi lo porta. Di fronte al panno invariabilmente blu o grigio delle popolane e degli appartanenti alle classi inferiori censiti dai notari in occasione dei lasciti, Simone Peruzzi, nel 1363, offriva in regalo alla moglie una veste piuttosto audace, in cui il costo del tessuto e della confezione erano solo il 30% del costo totale, mentre i bottoni d’argento, i vari ricamati e il gallone d’oro equivalevano da soli a 140 giornate di un muratore.
E così uno Strozzi che, nel 1447, regala una parure di fidanzamento del valore di 500 giornate di un operaio specializzato. L’abito indossato faceva della donna un manichino, espressione della potenza del padrone. E la cura di sé raccomandata dai trattati (dal De Ornatu mulierum della scuola salernitana al Ménagier de Paris), mira a conservare il colorito del volto e il bianco della pelle, mentre la disciplina dei capelli narra, oltre al grado della propria integrazione sociale, anche il proprio stato di salute. L’essere in buona salute è testimonianza di un equilibrio essenziale: quello tra il proprio corpo e la propria anima.
Considerato come un microcosmo – con risvolti politici giganteschi fondati da Giovanni di Salisbury e ribaditi dal Cor nostrum l’enciclica papale di Alessandro III -, il corpo umano è preso in un doppio registro: da un lato, Gregorio Magno che lo considera solo un “abominevole rivestimento dell’anima” , dall’altro Bonaventura, che lo considera un mezzo di elevazione (la posizione eretta è il segno della tensione ascendente a Dio). E’ una contraddizione forte, visto che il cristianesimo, sola ed inaudita religio, proclama la resurrezione dei corpi. Nell’accordo tra materia e spirito, che mostra l’essenza di un individuo, la forte intensità del secondo, più vicino a Dio, esercita un’attrazione forte sulla prima elevandola e redimendone lo stato animale: il corpo è la materia sensibile in cui si rivela lo spirito.
E’ una sorta di “libro” che non smette mai di raccontare, di mostrare lo stato dell’anima: l’esteriorità racconta, confessa l’interiorità. In questo senso, un qualunque disturbo del corpo è immediatamente leggibile come un disturbo dell’anima, la malattia è l’esposizione di un peccato. E’ interessante sottolineare il disinteresse che i medici mostravano verso la sintomatologia dichiarata dal malato: la sua voce non veniva ascoltata. Interessati all’ispezione “da capo a tallone” (“a capite ad calcem”) secondo una topografia più che una nosografia (un sintomo particolare indica un peccato particolare, più sintomi, più peccati), spiano i segni del male (si contano venti diversi colori possibili dell’urina, diciassette affezioni della faccia, cinque diversi tipi di pitiriasi, ecc.), un male che porta necessariamente all’esclusione.
Così a Cluny. L’abbazia ha un’infermeria che funziona da luogo di separazione: una parte della comunità vi si trova perché impura. Inoltre, cadendo le prescrizioni sul consumo di carne – perché rende fuoco e sangue al malato -, l’impurità viene temporaneamente aggravata per poter essere eliminata. Esclusi temporanei, i pensionanti dell’infermeria sono riconoscibili dal bastone – segno di debolezza – e dal capo coperto, segno di pentimento. L’esclusione si fa totale nel caso della lebbra. Segno di colpe inespiabili, la lebbra, oltre che il morbo di Hansen strettamente inteso, ingloba varie affezioni della pelle (dall’erisipola all’eczema, dalla morfea alla scrofola alla psoriasi) e comporta immediatamente lo statuto di “morto vivente”.
Il lebbroso è in uno stato intermedio tra una dimensione sociale di un al-di-qua che lo rifiuta e un al-di-là che non lo reclama ancora. Per i riflessi sullo status sociale che comporta, è il giudice che decide lo stato di lebbroso, ma è il rituale (la separatio leprosorum è una cerimonia religiosa) che ne sancisce l’effettualità: dotato di una campanella o di nacchere, vestito con un saio che nasconde il corpo e il volto – e soprattutto, ancora, cela la fascinatio dello sguardo -, il lebbroso, il “lazzarone”, viene escluso dalla comunità per essere destinato al lebbrosario. Luogo ambiguo, quasi cimitero in quanto comunità di morti civili, è collocato fuori dalle mura, tendenzialmente ad est della città, normalmente lungo le strade che portano a Roma o ai luoghi di grande devozione, dotato di una propria chiesa – perché anche questi grandi peccatori possano pregare –, funziona come una comunità dipendente dalla carità.
“Lazzaretto” si chiama, dalla sua consacrazione a San Lazzaro (da cui la denominazione di “lazzaroni” dei lebbrosi), ma sembra possibile anche una sua derivazione dalla corruzione della sua dedica a Santa Maria di Nazareth (avvenuta a Venezia, per cui nazaretto potrebbe essere diventato lazzaretto). Nella nostra zona, ne sono attestati due certi: quello di Sarteano – che sorgeva lungo la strada che portava a Chiusi – e quello di Chianciano – attestato nella zona della Pietriccia -.
Dei tre ospedali di cui ho notizia su Chiusi (Sant’Ireneo diventato poi di Santa Maria , Sant’Angelo e San Pietro), nessuno mi risulta destinato ai lebbrosi (sono ospedali cittadini). Si può sospettare la presenza di un lebbrosario in località San Lazzaro – ipotesi non peregrina, vista, oltre la toponomastica, anche la presenza in loco di una piccola badia -, seppur la sua localizzazione ad ovest della città mi faccia dubitare un poco.