Venerdì il quotidiano La Repubblica ospitava un inserto intitolato “Ragazzi di bottega”. In quell’inserto ho trovato la bella notizia che gli iscritti agli istituti tecnici e professionali hanno superato in numero quello dei licei. Davvero una grande notizia e spiegherò perché.
Prima del 1962 esistevano due canali di istruzione dopo le scuole elementari: la scuola media e gli istituti per l’avviamento professionale.
La prima serviva a formare coloro che aspiravano all‘istruzione superiore. I secondi servivano ad avviare al lavoro all’età di quattordici anni. Salvo rare eccezioni alla scuola media accedevano i figli delle famiglie più abbienti mentre l’istituto professionale era lo sbocco per i figli di operai e contadini.
Gli “avviamenti” potevano essere buone scuole anche perché vi potevano insegnare tecnici di buon livello.
La nuova scuola media unificata introdotta nel 1962 attenuò, ma non eliminò questo aspetto classista.
La vecchia mentalità secondo cui al liceo dovessero andare i più bravi in qualche modo dovessero andare ai licei perché poi destinati all’università. Gli studenti di medio livello di solito di iscrivevano agli istituti tenici e quelli più scarsi ai professionali.
La grande notizia sulle iscrizioni è che questa mentalità, forse grazie anche alla crisi, si sta sfaldando.
Alle scuole professionali e tecniche non si va più per i voti più o meno scarsi conseguiti al diploma, quanto piuttosto alle inclinazioni e alle potenzialità dell’allievo.
Allora per Chiusi, con le sue scuole tecniche e professionali, si aprono nuove prospettive. Il problema ora è quello di qualificare sempre di più ciò che abbiamo, che è molto.
Certo la recente vicenda dei laboratori non è incoraggiante, ma prima o poi anche da noi si dovrà prendere coscienza di questa bella rivoluzione.
Anch’io ho conservato, a futura memoria, l’articolo di Repubblica.
Per gli imprenditori intervistati – tutti di “nicchia” e “illuminati” – il ragazzo di bottega è una risorsa e un investimento sicuro e indispensabile per il futuro dell’azienda. Infatti la “formazione” la fanno in proprio, indipendentemente dalla scuola di provenienza. Mosche bianche rispetto alla normalità del tessuto produttivo italiano dove i “ragazzi” (magari di trenta e passa anni) sono solo degli apprendisti da sfruttare con contratti capestro, legittimati dalla normativa. L’apprendistato, come durata nel tempo, è ormai equiparato alla laurea “lunga”.
La nostra crisi attuale è anche figlia di scelte scolastiche irresponsabili che durano da troppo tempo. Tutte le risorse servono a mantenere l’apparato. Per la vera formazione rimangono le briciole e non basta qualche lavagna interattiva.
Purtroppo Luciano (Gherardi) il “terzo canale” esiste ancora, magari confinato nei campi rom e in qualche ghetto urbano. Per fortuna il “terzo canale” è illegale dagli inizi del secolo scorso.
Paolo ha perfettamente ragione sui due canali scolastici prima del ’63 (la riforma è del dicembre del 1962, ma, naturalmente, entrò in vigore l’ottobre successivo); purtroppo ne esisteva anche un altro, non scolastico: andare a lavorare a undici anni!
Paolo, al solito, si dimostra interessato come pochi a quello che viene definito il “bene comune”; tra questo bene, della comunità Chiusina e non solo, non possiamo non comprenderci il “patrimonio” rappresentato dalle scuole superiori, cui il nostro “principe buono”, per vari motivi tiene particolarmente, avendo avuto modo di comprenderne i pregi, pur tra tante carenze.
Da acuto osservatore qual è ha subito notato quindi l’articolo che evidenzia questo mutamento nelle scelte degli studenti che paiono più propensi ad orientarsi verso studi tecnici (o meglio delle famiglie degli studenti), forse aiutati in questo anche dalle varie campagne informative del Ministero, delle associazioni imprenditoriali, dalle indagini sugli sbocchi occupazionali, dalle varie inchieste televisive e giornalistiche. Peccato che dalle nostre parti ancora questa ventata di rottamazione di mentalità non sia ancora stata compresa appieno. Speriamo per il prossimo anno scolastico.