Versi di sutura

di Enzo Sorbera

Per la festa della donna credo sia doverosa la segnalazione di una riflessione non convenzionale, i versi “duri come rammendi [..] sutura in fil di ferro” di Elisa Biagini.

Più che sul tema della festa, è interessante una riflessione sulla femminilità ch’è strettamente intrecciata, inscindibile, dalla corporeità. Tema femminile per eccellenza, in questo contesto è una corporeità che si frammenta

“Non ti vedo persona / ma voce che scarnifica l’orecchio, / violento ronzare nei polmoni. Col tuo lento danzare della testa / mostri i nervi intrecciati, // le tue mani spellate / sono arazzi”.

E’ la restituzione in forma speculare dello sguardo dell’Altro. Il medesimo maschile non riesce a vedere la donna se non come un insieme di punti di articolazione del desiderio o, meglio, dell’erotismo. In quanto tale, l’unico statuto possibile per la donna è l’oggettualità. Ma è la consapevolezza di questo status che spezza il vincolo e, appunto, consente di duplicare lo sguardo in forma di specchio. Ma è anche la consapevolezza del (proprio) corpo come una “costellazione di microtraumi”.

Di più, come corpo in degrado

« mi tormento / a cercarmi / le dita, / per seguire / le vene / varicose, il / tracciato che / cambia »,

è la negazione della (sua) consumabilità. Non a caso le varici: sono cifra di un femminile non seducente. Cosa che ci porta all’altro elemento caratterizzante della femminilità: la fecondità. Infatti, l’elemento centrale della poesia della Biagini è l’uovo, come simbolo composito e coattivo di una possibilità perduta ogni mese. Ma è una costrizione redenta dalla menopausa:

“Menopausa / tutte e due i colli / bianchi / come uova, / mesi di nuovo / interi / niente sacchi di / sabbia per la diga, / o collane di sangue “.

Si noti quel “mesi di nuovo/ interi”: è la fine del tempo spezzato e scandito dall’ovulazione. E’ la fine del tempo “storico” della maternità come destino.

L’altro problema che solleva la Biagini è legato alla perpetuazione dello status/ruolo femminile. In questo contesto, più che quella materna, la figura centrale è quella della nonna, quasi a ribadire un’idea filogenetica della trasmissione del ruolo. E’ una trasmissione legata ai piccoli gesti quotidiani dell’universo domestico, un luogo rassicurante, che non conviene lasciare

là fuori è sempre buio: non andare”, un luogo reso pulito per farlo astorico “pulire per/ fare il presente/ perpetuo”.

La realtà è fatta di piccole tirannie: “

Questa cucina mappata, / ogni fessura, i confini : / conosci la tua terra, ogni tipo di polvere, / e chi entra / ed incrina lo specchio, / paga un dazio nella tasca del tuo grembio.”

La relazione tra nonna e nipote è mediata dal tema del cibo

Parlami ancora / per ricette, / tu / col cuore che pesa 3 / arance, tu con un / braccio che pesa 3 / mele.” Una relazione che non sa farsi parola, ma si esplicita mediante gesti, i gesti della violenza: “Nonna, mano / di lupo, /apri / la tua voce, apri / la mia gola per / riempirmi anche meglio / di cibo”,

tanto più terribile in quanto è surrettizia:

Ti mangio nella pasta / ogni domenica, / nella pressione del sugo sottovuoto”.

L’unica possibilità di sopravvivenza è nel rifiuto della prospettiva offerta dall’ambiente familiare: “Coperte, asciugamani, tovaglioli, / federe, tovaglie e poi presine, / ci facciamo una trincea / con questa roba / Visto che non la merito,”

e ancora “Questi panni che non mi copriranno / perché sola nel letto / perché con troppe uova nella pancia “.

E’ il rifiuto della sistemazione finale, il matrimonio. Autrice complessa, presenta delle sfaccettature che ci siamo limitati ad accennare soltanto, sperando che bastino per stimolare la curiosità.

I versi citati sono tratti da L’Ospite Einaudi, 2004 – pp. 7 e 9; e da Corpo cleaning the house in Poesie dell’inizio del mondo, Sossella Ed., Roma 2003 – pp. 227-230

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