Come tutti i festival che si rispettano, anche quello di Orizzonti non sfugge a polemiche, critiche o elogi e commenti estasiati. Credo però che come spettatori sarebbe importante intervenire sulla qualità degli spettacoli, su quello che ci è piaciuto o quello che non abbiamo compreso, piuttosto che sulle inutili e sterili polemiche rispetto alla chiusura di una strada.
Certo il costo degli spettacoli incide (buona l’iniziativa di ridurre il costo per i residenti della zona) e sicuramente domani mi perderò Pierino e il lupo per mancanza fondi, ma questa è un’altra storia e riguarda il problema ormai ventennale dell’inaccessibilità di una fetta di popolazione alla cultura, che riguarda le politiche culturali di uno stato che ha abdicato ormai al suo ruolo educativo e pedagogico. Io però vorrei parlare dello spettacolo di ieri sera – Grimm’s Anatomy – al quale ho avuto il piacere di assistere, diretto da tre registi che attraverso l’interpretazione dei loro attori si confrontano con tre fiabe dei fratelli Grimm.
Lo spettacolo prende il via con un corpo sinuoso, innervato dalle trame di un conflitto secolare: la lotta contro il tempo che passa, il ruolo assegnato e quasi mai rivendicato, di madre, di moglie, di amante, le parti di sè che pretendono attenzione, sottolineate da una recitazione asciutta dove la parola traduce continuamente il rapporto d’amore/odio, tradito subito dopo da un gesto, uno sguardo, una pausa. E in quella pausa c’è tutto il delirio di una malvagità che non si rassegna e grida, si dibatte e si contorce, senza tregua, senza poter trovar pace.
Quella pace ricercata, ma dilaniata dalle troppe domande, al quale nemmeno più lo specchio riesce a rispondere. Prosegue poi con un capolavoro di scrittura e interpretazione, dove l’attore e il testo diventano tutt’uno. Al punto che lo stesso dialogo tra la madre e Emily, diventano il controcanto di una tragedia che trova il suo epilogo nel divenire di un’identità mobile, che si alimenta del dolore mai pronunciato della perdita, accennato in quel sospiro, in quel gesto, in quella carezza che costellano i giorni del “dopo”. Dove finalmente la femminilità è rivendicata, e lo sguardo dell’altro diventa l’ennesima occasione per recuperare frammenti della propria storia.
Per ritrovare uno spazio adeguato in una casa, che dopo un funerale è sempre troppo affollata. E la scarpa, mai lasciata, mai abbandonata per caso, testimonia il doppio che diventa uno, affinchè le due metà possano finalmente congiungersi, nelle pieghe di un fasciante vestito rosso. Cosi che la traccia, come la bellissima poesia di Emily Dickinson , non diventi alibi per la ricerca. Conclude lo spettacolo con funambolica allegria il bel principe, e qui l’attore e il testo giocano, battibeccano, si divertono a partecipare alla disputa, manifestando dapprima con timidezza, poi quasi con rivendicazione, un’inadeguatezza al ruolo – quello del salvatore che deve sempre provvedere a chiudere il lieto fine – quasi a gridare fuori dalla gabbia dell’eroe, quello stesso grido che all’inizio dello spettacolo aveva lanciato come monito la regina cattiva.
Qui la parola riprende i contorni della sequenza logica della fiaba, accompagnando lo spettatore lungo i binari di una trama. Ma attenzione perchè alla prima curva, come un treno lanciato all’impazzata arriva l’impetuosità del protagonista che tira fuori dal suo baule, nuovi sguardi narrativi. E lo fa con armonica simmetria, adducendo plausibili scuse, al punto che sembra impossibile non condividere il suo pensiero. Tutto, alla fine, ci riconduce al conflitto eterno tra l’ineluttabilità di un destino determinato e la pervicacia dei protagonisti di queste indimenticabili storie, che li porta a lasciare sulla sedia, sul manichino e dentro il baule, nelle scanalature di una maschera salvifica, certezze e lieto fine, barattando l’ombra del dubbio, con una sconvolgente umanità. Questo è il mio piccolo contributo. Spero di leggerne altri qui o altrove.
P.S. Ho dimentico di mettere i nomi dei registi e i nomi degli attori. i registi sono per il primo “Anna Calacchi, cerca che la trovi. Regina di Biancaneve” Carlo Pasquini e Daniela Comandini – attrice Chiara Savoi. per il secondo Emily Emily è Giovanni, Giovanni e Emily. Cenerentola, Laura Fatini e l’attore è Pierangelo Margheriti. Il terzo Bell’addormentata. Gabriele Valentini e l’attore è Giacomo Testa
Spendendo un bel pacco di soldi ci si aspetta (almeno io) di conoscerne almeno gli intenti.
Qual’è lo scopo di un festival siffatto?
Solo dopo si può parlare degli spettacoli (qualità, congruenza…).
Dal mio punto di vista un festival di questo tipo, a Chiusi, non ha alcun tipo di giustificazione.
Leggere poi il direttore artistico prendersela con… i pensionati dell’Arci, non ha prezzo: https://www.facebook.com/a.cigni?fref=ts
Lungi da me l’idea di fare una recensione. Il mio è semplicemente un commento ad uno spettacolo che ho trovato molto stimolante. Per quanto riguarda il pubblico è vero che è una questione di opportunità (io appartengo ad una generazione e vengo da una città dove tutto era a portata di mano, quindi mi ritengo anche molto fortunata) ma è anche una questione di scelte, sia dello spettatore che di chi gestisce la proposta culturale chiusina. Avere un teatro e non metterlo in gioco – scelta che invece hanno fatto a Sarteano dove i registi dello spettacolo in questione continuano a mettere in scena spettacoli interessanti – è un’assurdità. Quindi ben venga il festival, ma occorrerà prima o poi parlare anche del teatro e della sua gestione.
Siamo d’accordo. Il problema è che non vengono mai messe in questione “le basi”: chi è il destinatario della nostra azione (culturale o meno)? Troppo spesso è un generico “turista” mentre già lavorare per il pubblico “di qui” sarebbe un’impresa eccezionale. E’ un problema di “orizzonti” su cui abbiamo già discusso qualche post fa. Lo scroscio d’appluasi va comunque guadagnato: non basta la “recita”. Chi fa il furbo, viene sempre riconosciuto. E lo spazio dei furbi si assottiglia sempre più. (Spero)
Grazie Enzo Sorbera, avevo già apprezzato il pezzo su Primapagina. Il mio commento al post di Rosa Iannuzzi che in realtà trovo interessante, è stato quasi provocatorio per mettere in relazione tra loro chi produce cultura e coloro che ne fruiscono. Soprattutto quando si parla di “produzione” (quindi di regia) destinata ad un pubblico locale dove la proposta teatrale è a volte una pregiudiziale per il gradimento del pubblico. Ci sono registi che da anni gestiscono laboratori teatrali senza uscire da schemi e proposte dilettantesche, quasi da recita scolastica, per un pubblico che dispenserà comunque scrosci di applausi poi magari cambia la platea e si ha il coraggio di proporre tematiche di alto livello….dove l’applauso per il gradimento te lo devi proprio sudare…
Possibili chiavi si trovano qui:
http://www.primapaginachiusi.it/2014/08/grimms-anatomy-il-teatro-locale-fa-pezzi-biancaneve-cenerentola-la-bella-addormentata/
https://www.facebook.com/enzo.sorbera.5/posts/1513833258849321
Per chi non è su facebook, lo stesso intervento si trova anche in
http://www.lagocciachiusi.it/viewtopic.php?f=9&t=47
Ma un resoconto come quello di Rosa può limitarsi alla descrizione delle proprie impressioni: alle volte, è proprio quello che serve.
Per un ruolo più educativo e pedagogico si potrebbe partire proprio dalla comprensione di certe recensioni. Nel post di Rosa Iannuzzi non vedo come si può aiutare a comprendere, con una chiave di lettura, lo spettatore che ha assistito allo spettacolo e magari se ne è andato senza comprendere il senso dello spettacolo. Un investimento culturale di 180.000 può significare non perdersi “Pierino e il lupo per mancanza di fondi”… (non vedo il motivo di pagare un biglietto per assistere ad uno spettacolo finanziato da una Amministrazione Comunale) a meno che la “Cultura” non sia motivo di fruizione ed appannaggio solo di quelli che sanno comprendere ed hanno i soldi per un biglietto da pagare…