di Paolo Scattoni
Quando si parla e si scrive degli immigrati richiedenti asilo, soprattutto africani, lo si fa molto spesso a sproposito, per ignoranza, ma talvolta anche in malafede. Alcuni utilizzano le più viete e vergognose bufale, quelle utilizzate dai seguaci di Salvini, anche se ormai il “capitano” non le utilizza quasi più.
Ho parenti stretti di origine africana e quindi ho seguito più di altri il fenomeno degli immigrati richiedenti asilo. Dalle nostre parti il tutto è circondato da ignoranza. Prima di tutto quella degli immigrati che non riescono a comprendere quello che succede loro intorno. C’è ignoranza anche nella cittadinanza “consolidata” che non riesce a comprendere i problemi e l’estensione del fenomeno.
Per i richiedenti asilo è difficile capire la procedura del riconoscimento. Le commissioni territoriali dopo molto tempo li convocano e in una o due interviste di poche ore decidono se concedere o meno il tanto agognato permesso di soggiorno a più lunga scadenza.
Spesso i richiedenti asilo non riescono ad esprimersi nella lingua “ufficiale” del loro paese di origine (soprattutto inglese o francese) perché hanno frequentato scuole di villaggio con insegnamento impartito nella lingua locale (in Africa sono molte centinaia).
Durante le interviste c’è un mediatore linguistico che fa quel che può. Conosco un richiedente asilo che ha ancora evidenti nelle braccia i segni delle pallottole conseguenti alla partecipazione ad una manifestazione. Richiesta respinta, evidentemente non è riuscito a spiegare bene.
Per fortuna dopo l’estensione dei permessi provvisori, con un po’ più di conoscenza della lingua e con l’aiuto di un legale riescono spesso in sede di appello ad ottenere sentenze a loro favorevoli.
A mio modestissimo avviso dovremmo valutare se è possibile trasformare queste presenze da un costo ad un’opportunità.
Qui da noi, soltanto nel versante toscano ci sono sei o sette Centri di accoglienza stranieri (Chiusi, Sarteano, Cetona, Chianciano, Sinalunga, Torrita) per circa 200 richiedenti asilo. La conoscenza della lingua italiana è ancora un problema non completamente risolto. Ancora più grave è che nulla è stato chiesto sulle loro professioni già maturate in Africa. Eppure ci sono tanti che hanno competenze che a noi mancano (saldatore, falegname, sarto, elettricista, ecc.) eppure rimangono qui per anni senza poterle esercitare. Non è possibile neppure conoscere il livello di queste conoscenze. Per uno di loro ho chiesto di poterlo verificare con l’aiuto di un artigiano locale, ma è praticamente impossibile per il timore che “succeda qualcosa” durante la prova.
Il lavoro possibile rimane quello della campagna nelle mansioni meno qualificate che non richiedono una formazione specifica. Lo fanno molto volentieri, ma ci sono ostacoli per il trasporto. Con le restrizioni dovute al Covid19 il trasporto diventa per loro un problema di difficile soluzione.
La difficoltà di spostamento riguarda anche lo studio. Raramente riescono a frequentare i corsi di italiano, la scuola media per adulti a Chianciano e la scuola serale a Chiusi. Eppure quando riescono i risultati sono incoraggianti.
La mia domanda è forse ingenua perché non sono un esperto sul tema: si potrebbe organizzare il tutto con una maggiore attenzione alle competenze e mettere in comunicazione le competenze di questi ragazzi e l’offerta di lavoro?
x Enzo Sorbera. Credo che ci siano almeno due aspetti da considerare. Un buon numero di richiedenti asilo ha conseguito in patria diplomi di scuola media superiore. Alcuni dei paesi ell’Africa occidentale (p.e. Nigeria) sono collegati a un sistema di documentazione che riguarda i singoli. Se ne può fare richiesta e poi chiedere a organizzazioni specializzate (p.e. CIMEA. http://www.cimea.it/it/index.aspx) una procedura di riconoscimento di equipollenza. Questi centri di accoglienza italiani, visto che riscuotono dallo stato italiano, farebbero bene a muoversi. Purtroppo non lo fanno quasi mai.
Poi c’è l’aspetto delle competenze. Anche queste non vengono chieste. Basterebbe un minimo di organizzazione. Ricordo che circa 15 anni fa chiesi per mio cognato a un assistente di laboratorio del professionale se poteva dare “qualche ripetizione” a mio cognato che in Etiopia aveva lavorato per organizzazioni e imprese di primaria importanza. Bastarono 15 minuti per capire cosa era in grado di fare. Partì una segnalazione d impresa di Chiusi a tecnologia avanzata. Fu assunto e lavora per quell’impresa da molti anni. È stato mandato in missioni all’estero per competenza, ma anche per la conoscenza dell’inglese. Penso che per l’impresa sia stato un vantaggio averlo.
Non ci vorrebbe molto. Basterebbe una visita in Germania per vedere come fanno.
Il nostro sistema produttivo ha una serie di limitazioni che non consentono di “provare” senza conseguenze: l’infortunio, purtroppo, al di là di protezioni e assicurazioni – che hanno un costo molto alto -, è sempre possibile e provocherebbe un disastro tremendo. Certo, se fosse possibile riconoscere e utilizzare queste competenze, avremmo diversi benefici sia sul piano strettamente operativo (arrivano già formati) sia sul piano sociale (un posto di lavoro produce sicurezza sociale e reddito tassabile) e dell’integrazione. Non saprei suggerire strumenti giuridici capaci di verificare le competenze in sicurezza in maniera da poter poi assumere.
molti richiedenti asilo hanno una formazione professionale, ma a volte queste abilità non sono riconosciute. Si contano sulle dita di una mano i richiedenti asilo che con un po’ di fortuna sono in grado di utilizzare le proprie competenze.
In un Paese in cui non si tiene conto della competenza reale di una persona neppure nell’attribuzione di importanti incarichi istituzionali sperare che qualcuno si assuma l’onere di analizzare le capacità professionale dei richiedenti asilo sembra fantascienza!! Sarebbe una bella soluzione per tutti ma viviamo in una società in cui predomina purtroppo l’ignoranza e la burocrazia fine a se stessa