di Daria Lottarini
In questi giorni la notizia dell’ex maglificio sequestrato alla criminalità organizzata e deputato all’accoglienza di 25 richiedenti asilo ha sortito un’ampia varietà di commenti e prese di posizione, alcuni anche condivisibili, ma altri assolutamente inaccettabili.
Non si sono sprecate parole razziste, prive di umanità e pietà. Parole prive di comprensione rispetto a quella che è a tutti gli effetti un’emergenza umanitaria, nonché una situazione di estrema difficoltà personale ed emotiva.
Non si capisce che le politiche di accoglienza non vanno a “rubare” o sostituire altri tipi di interventi, ma sono necessarie e indispensabili alla risoluzione delle problematiche migratorie e di integrazione.
Purtroppo l’attuale governo e le parole di certe istituzioni o personaggi politici in carica legittimano e, talvolta, fomentano l’odio razziale, la paura per il diverso, la non comprensione delle difficoltà altrui, l’inutilità del principio di solidarietà. Atteggiamento purtroppo condiviso da molti governi europei e non solo.
Ci chiediamo, altresì, se tutto ciò possa però essere amplificato da una cornice socio politica che non dà risposte, che si limita all’accoglienza e non si spende per una vera e propria integrazione. Sarebbe interessante capire i motivi o le necessità per cui l’accoglienza di questi richiedenti asilo sia affidata proprio alla Misericordia e non ad altre associazioni volontaristiche. Sarebbe importante capire quali strategie di integrazione porterà avanti suddetta associazione, nelle gestione di questa emergenza. Sarebbe necessario che la nostra amministrazione si assicurasse che tali politiche vengano attuate, assumendo anche un ruolo chiave nella programmazione di esse e nella mediazione tra varie associazioni che potrebbero occuparsi di accoglienza e integrazione.
Perché senza questo tipo di lavoro si rischia di non fornire risposte adeguate ai dubbi e alle paure, lasciando spazio all’odio e al rifiuto.
Rimaniamo in attesa di risposte da parte della politica e ci rendiamo disponibili a collaborare per l’attuazione di interventi che vadano verso una strategia seria di accoglienza e integrazione.
Ho già scritto di quando Claudio Provvedi, responsabile allora della Tavola di Renè, mi “affidò” un richiedente asilo che voleva studiare ma non era possibile dal punto di vista burocratico. Mi fece allora un grande regalo perché da quella frequentazione ho ricavato tanta conoscenza e un’amicizia. Soprattutto un ponte per conoscere altre realtà simili. Non so quanto possa fare il Comune. Certamente molto può fare la scuola. Per i richiedenti asilo il problema è quello del riconoscimento dello status di rifugiato che arriva, quando arriva, dopo alcuni anni. Posso affermare in base all’esperienza che il processo di riconoscimento potrebbe essere molto accelerato.
Prima di tutto la conoscenza della lingua italiana. Le lezioni un paio di volte a settimana non servono. Occorre un programma intensivo di almeno 10/15 ore a settimana appositamente organizzati singolarmente o per piccoli gruppi. Per l’inserimento al lavoro bisognerebbe far funzionare bene l’incontro fra domanda e offerta. Spesso non gli viene chiesto che lavoro facevano nel loro Paese. Eppure molti rifugiati africani hanno competenze maturate “a bottega” che per farle maturare in Italia (fra scuola e apprendistato) comporterebbero una spesa complessiva di decine di migliaia di euro.