Le vecchie osterie di Chiusi

di Fulvio Barni

Qualche volta è giusto parlare anche delle vecchie usanze e costumi del nostro paese finite ormai nel dimenticatoio..

Le osterie di una volta, vale a dire quelle di 50/60 anni fa, erano un punto di riferimento per il paese, o meglio, lo erano per la popolazione maschile, naturalmente. Le donne quando vi entravano lo facevano solo per cercare i loro mariti che molto spesso si dimenticavano di rientrare a casa. Tra i locali “celebri” di Chiusi, è doveroso ricordare “dal Chipa”, divenuta in seguito “da Cappannino”, “da Mainò”, divenuta in seguito “da’ la Zaira”, “da Bistarino”, “da’ la Delfa”.

Non appena entrati dentro ai locali, la prima cosa che saltava agli occhi dell’avventore, nel vero senso della parola, era il denso fumo che avvolgeva gli ambienti. Un’ acre odore di sigaro, pipa e sigarette, magari fatte con il “trinciato forte”, mescolato ai diversi profumi di vino e della cucina, ammorbavano l’aria rendendola pesante e, a volte, irrespirabile. Questo, purtroppo, era l’unico luogo dove ci si poteva svagare.

Almeno lì le tribolazioni quotidiane, anche se per un breve spazio di tempo, venivano accantonate. Il teatro e subito dopo la guerra il cinema, costruito sui ruderi della vecchia porta San Pietro, fatta saltare dai tedeschi in fuga, non erano alla portata di tutti. Sia economicamente che culturalmente. Ogni tanto avrebbero anche potuto permettersi il lusso di andare a vedere qualche spettacolo, ma avete idea di quanti bicchieri di vino ci sarebbero venuti fuori all’osteria con gli stessi soldi? Tanti ! Lo spettacolo, poi, se lo allestivano da soli. Gli scherzi, le sfottiture, la “coglionella” (prese in giro), erano sempre all’ordine del giorno.

Gli artigiani, gli operai, i contadini, tutti insomma, erano clienti abituali dell’osteria. Un momento: proprio tutti non direi, i ricchi ed i nobili frequentavano il “caffè”. Locale molto più “In” e adeguato al loro rango. Per lo svago invece avevano un circolo tutto loro, esclusivo, dove soltanto i soci potevano accedere.

Il via vai all’osteria cominciava la mattina presto, quando il calzolaio, tanto per fare un esempio, chiamava il falegname e tutti e due insieme passavano dal fabbro che a sua volta faceva un fischio al sarto, e così via fino a diventare un nutrito gruppo. Per quel solo “giro” le bevute di vino che facevano erano pari al numero dei componenti la compagnia. Pagavano a turno, una volta ciascuno.

E non vi sfiorasse nemmeno l’idea che stessero tutta la mattina là dentro; nemmeno per sogno, avevano troppo da fare. Tutto si svolgeva nel giro di pochissimo tempo. Poi si replicava due, tre, anche quattro volte ancora durante il giorno: appena pranzato, insieme alla canonica partitina a carte, nel tardo pomeriggio e prima di andare a cena, dopo la chiusura della bottega.

I contadini, ovvero, i “capoccia”, (colui che curava gli interessi della numerosa famiglia) che ad essere sinceri, tutto sommato, non facevano proprio una brutta vita, vi pranzavano spesso. Quando dovevano andare dal fattore allo scrittoio per far segnare sul libretto colonico crediti, o molto più spesso debiti, quando c’era il mercato, quando c’era la fiera mensile, quando andavano per comprare una giovenca, quando avevano venduto una scrofa, insomma tutte le occasioni (forse anche scuse) erano buone per sostare all’osteria.

I piatti che venivano offerti ai clienti non erano certo veri e propri manicaretti raffinati. Si trattava di cibi semplicissimi, però genuini e nello stesso tempo gustosi. I pici , il baccalà (una volta era solo cibo per poveri  oggi invece costa più delle bistecche), il buristo , i fagioli “co’ le salcicce o le cotiche”, erano tra i pochi piatti a disposizione, quelli più consumati.

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8 risposte a Le vecchie osterie di Chiusi

  1. fulvio barni scrive:

    A proposito di soprannomi, mi avete fatto venre in mente una poesia intitolata “Chiusi di una volta” che scrisse diversi anni fa Plinio mannucci. I personaggi riguardano chiusi città, perché lui era nato quassù, all’alto.
    Eccovi qualche verso:
    “Era il tempo di “Cucu”, di “Cetrolo” e di “Gabeto”, in cui il paese trascorreva il periodo suo lieto/.
    Le virtù delle sue genti, dall’acuta parlantina, scaturivan dalle mura del Terzier della Cimina/.
    “Beppe” “Nero”con “Bombò”, ” ‘lBebbi”, “Brisca”, “Broccuccino”, “Rondondò”, Bordello e “Beo”, ” ‘l Nodo”, “Peula” e “Tifino”/………….
    Quanti ne ha presi in un colpo solo!

  2. carlo sacco scrive:

    X Nicola (Nenci)’.’Broccuccino” era un falegname che aveva la bottega appena al di là del passaggio a Livello sulla sinistra nella prima ed unica casa che stà di fronte, all’altezza della via sterrata che porta al ”Grottone”.Era un falegname che faceva piccole riparazioni agli oggetti ed anche lui era di quelli che avevano sposato la causa dell”etilometro da Porsenna.
    L’oste ”Chielli” infatti aveva la prerogativa di avere ”il vino bono” e ad ogni stagione le damigiane che teneva in cantina subivano salassi senza fine da parte di persone variegate, per non parlare poi del ritrovarsi dei cacciatori.
    Centinaia di crostini con gli uccelletti giravano sugli spiedi e d’inverno andare a mangiare dal Chielli (Vittorio Mario Rocchini) era un piacere. Si fermavano perfino i camionisti emiliani, con i loro interminabili rimorchi che trasportavano le merci da Roma e per Roma. Una sosta dovuta ed anelata per coloro che passavano la loro vita nella strada. Una mitica osteria che meriterebbe di essere veramente raccontata.
    Io ero piccolo ma una parte della mia vita l’ho passata anche dentro la Trattoria Porsenna.

  3. Nicola Nenci scrive:

    Chiedo scusa, avevo letto male. Oggi son di corsa.

  4. Nicola Nenci scrive:

    Carlo, le informazioni erano perfettamente corrette, infatti è proprio lui. Cicci è il cugino bòno del mi’ babbo, ma non sapevo che al pòro Foresto gli dicevEno Broccuccino.

  5. carlo sacco scrive:

    Nicola(Nenci) credo che il tuo parente non sia stato il tale ”Broccuccino”, ma proprio il Nenci che aveva un figlio che si chiamava col soprannome di Cicci, che faceva il camionista e che non vedo più da quasi 45 anni!!….e che aveva la bottega da falegname accanto a quella di Side Marchetti, padre di Sergio Marchetti.Andare a ritroso nel tempo talvolta si fà confusione ma credo che in questo caso le notizie che ti ho fornito siano esatte.Ai frequentatori della Trattoria Porsenna e della relativa mescita bastava poco per essere ”nel nirvana” perchè alla mattina col primo panino col salame(una sola fetta e non più al modico prezzo di Lire 15 )era sufficiente avvicinare il grondino alla bocca e respirarne i fumi che esalavano dal bicchiere per apprezzare la fermentazione alcolica dell’uva….Allora i carabinieri non avevano il palloncino…..anche perchè i frequentatori di Porsenna le macchine non le avevano….

  6. enzo sorbera scrive:

    Eh, ora il baccalà se non è “com granhos” o al “pil pil” – cioè se non è “fabbricato” alla portoghese -, unn’è bono. Invece, vuoi mettere quel baccalà arrostito alla brace? Quando si svinava tra amici, la colazione di baccalà arrostito alle 9 e mezza era un obbligo! Il problema era rimettersi, dopo, a lavorare 🙂

  7. Nicola Nenci scrive:

    C’era Foresto, uno zio del mi’ babbo che aveva la bottega da falegname proprio al passaggio a livello. Non so se è il Broccuccino citato da Sacco, ma, almeno a quanto dicono, era fisso a béve dal Porsenna insieme a Fagiolino, il carrozziere.

  8. carlo sacco scrive:

    E’ tutto vero quanto dici Fulvio e la vita a Chiusi in quei tempi era proprio quella che descrivi. Alla stazione invece c’era un solo locale di quel tipo: La Trattoria Porsenna del famigerato ”Chielli”, subito al di là del passaggio a livello. Là si ritrovavano gli artigiani e tutti coloro che arrivavano a Chiusi percorrendo la Cassia Aurelia e vi sostavano, anche perchè le ”sbarre” del passaggio a livello erano chiuse quasi 20 ore al giorno ed il traffico in attesa era incredibile. Ricordo il Postino Toppi, Marzialino il carbonaio,” Broccuccino” il falegname e molti altri ancora; alcuni che venivano a farsi uno spuntino dalla mia zia Bruna Sacco che era la moglie del ”Chielli”, al secolo il padre di Bruno Rocchini mio cugino -che tutti hanno conosciuto-. Soprannome dovuto al padre di questi ereditato dal nonno che col figlioletto ai primi del ‘900 andava a prendere i viaggiatori che scendevano alla Stazione e per sottrarli all’accaparramento dei conduttori e dei vetturini delle carrozze, li metteva in riga ed al figlio urlava di tenerli in fila indiana apostrofando l’imperativo di ”tienili” -nel senso di tenerli in riga e di farli camminare-. Da lì il soprannone ”Chielli”. Coloro che entravano per farsi un panino con una fettina di salame ed un bicchiere di vino spesso uscivano dalla mescita che erano già non tanto savi, perchè quello nella mattina era già il quarto o quinto bicchiere bevuto dal ”Chielli” che alle 6,30 del mattino era già aperto. Altri tempi.

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