Chiusi dentro, è il titolo del libro di Maria Pace Ottieri che è stato presentato sabato 5 al Teatro Mascagni e che sta facendo notevole scalpore.
“E’ un libro dall’andamento ondivago e labirintico – ha detto il giornalista Filippo Bologna che l’ha presentato – e presuppone che i lettori prendano per vero quello che è solo una esperienza personale”. Ed è infatti l’esperienza personalissima di Maria Pace, illustre rampolla della nobile famiglia chiusina degli Ottieri.
Giornalista e scrittrice è nata a Milano, ha vissuto la sua giovinezza a Roma ed è stata poi incaricata dalla famiglia di curare l’ultima proprietà rimasta a Chiusi, quel palazzo antico, sormontato da merli come un castello, che è nel bel mezzo di Via Porsenna.
“Il libro è nato – ha dichiarato lei stessa nell’introduzione – per raccontare a qualcuno quello che provo per Chiusi”. Chiusi quindi come la vede lei. “Potrebbe intitolarsi anche: Visita guidata ad un palazzo antico”, ha detto il Bologna. Ed infatti al centro del libro c’è il palazzo di famiglia, con il ricordo del conte, del fattore Assuero e dell’imprenditore Ismaele, insieme alla nostalgia di un patrimonio che non c’è più.
Appare sullo sfondo la bellezza della campagna toscana “intimamente legata alla mezzadria che l’ha modellata per secoli” perché “architetto del paesaggio toscano era il mezzadro”.
E nel palazzo l’autrice riesce a far parlare tutto: i libri ingialliti della biblioteca, un tempo divorati dal nonno; i piccioni che tiranneggiano con i loro escrementi; le piastrelle del pavimento; i tarli dei “mobili secchi, stecchiti, inanimati” che, grazie a loro “brulicano di vita”; le delicate e pudiche lettere d’amore tra il padre Ottiero, allora diciannovenne, e Tullia, di qualche anno più grande, pervase di un pudore e di una delicatezza che non esistono più.
Con Maria Pace il palazzo si anima di intellettuali stranieri perseguitati nella loro patria, che gettano il loro sguardo nell’ambiente intorno. Per loro, provenienti da grandi città, “a Chiusi tutto è antico, dentro e fuori casa” e “tutto è lento e si rinvia al domani“.
Inevitabilmente, intorno al palazzo, appare Chiusi, dove “l’odore dell’aria sa di ragù” e dove, tra la sua gente,”più i dialoghi sono incongrui, più circolano buonumore e soddisfazione reciproca” ed appare “l’ ironia che deve essere un modo per tenersi a bada”.
Solo per i rumeni di oggi “Chiusi non è un paese senza scampo, ma un approdo sereno e progettuale, il luogo di una vita migliore”. Sono “uomini solidi, vigorosi, virili, come nelle città non se ne vedono più… non dicono mai di no… praticano l’economia arcaica del baratto che non lascia traccia”.
All’entrata orientale del paese c’è il Teatro Mascagni che evoca la battaglia che vi fu combattuta nella notte tra il 21 e 22 di giugno del 1944 tra Tedeschi e Alleati e dove morì quasi un intero plotone di sudafricani, straordinariamente “tutti volontari”. In questo capitolo Maria Pace ricorda l’episodio singolare del caporale Renou, il cui corpo, dopo la morte, fu portato ad Assisi, dove avrebbe voluto andare in pellegrinaggio da vivo.
Il più bel capitolo è quello dedicato al cimitero “uno dei luoghi più ameni… dove la morte è troppo familiare… sembra qualcosa che riguarda solo gli altri… e nelle lapidi i nomi sono scelti con cura e fantasia“ e sono arricchiti anche dagli inevitabili soprannomi, per essere meglio riconosciuti. E poi c’è il custode Sebastiano, di origine napoletana, passato da Messina dove faceva il pasticcere. Per lui, che è maestro elementare, “il cimitero emana energia”. Lavorarci dentro significa “sentirsi compagno di viaggio della morte… avere il senso del limite… e tutto sotto controllo, anche la morte”. In definitiva Chiusi, considerata “città dei sepolcri perché tutte le sue bellezze sono sottoterra” ha un “cimitero allegro”.
Ed ecco il capitolo sui neocatecumeni, quello che è stato come il proverbiale sasso in piccionaia, che ha suscitato polemiche, legittimi dissensi e reiterati risentimenti, ma che potrebbe essere interpretato come notevolmente significativo e foriero di interessanti sviluppi.
L’ autrice ha avuto la sensibilità di essere stata colpita e interrogata da quello che lei stessa ha definito uno “strano fenomeno” della nascita e del perdurare di un’esperienza fortemente spirituale in un contesto storicamente laico e anticlericale. Ha avuto il limite grosso di approcciarsi all’argomento con un atteggiamento personale di prevenzione irriverente e derisoria squalificato inoltre da superficialità professionale.
Non si è documentata infatti sui testi ufficiali della Chiesa ma si è affidata ad una ricerca via internet che non ha certo il rigore scientifico dell’indagine storica ma che, come in questo caso, è squallido ricettacolo di frustrazioni personali. Ne viene fuori un’immagine del cammino neocatecumenale che è diametralmente opposta a quella che è l’ effettiva realtà. L’ autrice raggiunge il culmine della spocchia e della menzogna quando dichiara che i neocatecumeni “non credono che nell’ostia ci sia veramente il corpo di Cristo e nel vino il suo sangue, tanto che se cadono gocce di vino per terra ci ballano allegramente sopra cantando… e sono, inoltre, avulsi dalla vita del paese”.
Gli ultimi capitoli riguardano la posizione strategica di Chiusi e gli Etruschi “lievi e tenaci, sereni e crudeli, inafferrabili e terreni … con la mania dell’arcano … i sorrisi misteriosi … la sorpresa beffarda … il gusto della vita”. Caratteristiche ancora riscontrabili nella nostra gente ed in cui i chiusini si riconoscono.
Molti invece non hanno gradito che il libro presenti, quasi come emblema della città e retaggio del passato, gli spettacoli porno del Cavallino Bianco di Carlo Alberto Rettori. Il solare gusto della vita a tutto campo degli Etruschi era ben altra cosa.
La conclusione si rifà all’ inizio: “Ho viaggiato molto e ho sempre cercato un “altrove”. Chiusi è forse quell’ “altrove” diverso da me… Come si guarisce dal “mal di Chiusi”?… In chi ama il luogo dove è nato e vuole rimanerci alligna una speciale forma di coraggio: quello di resistere alla tentazione di spostarsi”. Forse Maria Pace si è riconosciuta nella malinconia di un popolo che, come un nobile decaduto, con nel sangue la memoria degli antichi splendori, sta attraversando un periodo di stasi e vede che “il mondo va avanti senza interpellarlo”.
Ma soprattutto Maria Pace può avere intravisto quell’ “altrove” nelle contraddizioni che sono tipiche dei chiusini che, da buoni toscani, per dirla con Malaparte, sono avvezzi a rivoltar la terra e a mischiare le cose terrene con quelle divine. Ammaliata quindi dal “mistero” del popolo etrusco. Mistero non inteso in maniera razionalista come qualche cosa che non si può arrivare a comprendere ma, secondo l’interpretazione giudaico–cristiana, come qualche cosa di talmente splendente da guardarsi con gli occhi soc-chiusi.
Ci si inalbera subito quando viene toccato il proprio piccolo dio personale?
L’autrice sbaglia a dire che sono avulsi dalla vita del paese: a me sembra, invece, che pongano molta attenzione al compimento di percorsi materiali, oltre che che spirituali. Com’era quell’articolo? Bisogna ripensare al rapporto fra la Chiesa e le banche, mi pare.
Ho letto il libro con un senso di disagio perchè, anche se le opere hanno un valore in sé indipendentemente da quello che pensa o vuol significare l’autore, i fatti e le situazioni narrate non le ho potute distinguere dalle persone che conosco e frequento.
La cosa che mi ha più infastidita è veder confondere la sofferenza con la bizzaria e, talvolta, la curiosità col pregiudizio.