Molto intrigante il problema che circola da tempo qui sul blog, e che ha riproposto Scattoni, a proposito della necessità di assegnare centralità alla cultura rispetto a scelte amministrative che sembrano dare una risposta tradizionale a temi e problemi della nostra civitas. Ad un tessuto sociale, cioè, che si pensa e disegna molto più complesso delle risposte date e di potenzialità inespresse ma quantitativamente immense -magari esagerando un po’-. Mi pare però che dobbiamo chiarire quanto si intende, cioè se la cultura è ancora Cultura -con quel troppo di maiuscola iniziale-, un bene di per sé (e altrove avevo posto il problema di cercare di definire quale sottosistema intendiamo privilegiare di una galassia o, meglio, un sistema retorico com’è quello culturale) e quali ne siano i fruitori, e con quali modalità raggiungerli (ammesso che sappiamo essere produttori o valorizzatori di cultura).
In sostanza, si tratta di capire se con il termine “cultura” riusciamo ancora a parlare (e a chi) di un sistema di valori ed interessi condivisi. In questa direzione sono stati sviluppati i progetti del Poblenou catalano, le “Case del sapere” in Estremadura o del centro francese in Ardèche e altri finlandesi (dal nome, per me, impronunciabile) di “recupero” della dimensione comunitaria di condivisione ed interscambio secondo uno schema di technocampus che mi piacerebbe sperimentare anche qui da noi. Per una visione d’insieme, si può andare di persona o visitare www.territoires-de-demain.org . Ma si tratta di un progetto -per quanto splendido- rivolto a soggetti per i quali ha (aveva) ancora senso l’idea di futuro: dobbiamo però provare ad andare verso un tentativo di definizione/identificazione dei possibili destinatari di quanto proponiamo sotto l’etichetta “cultura” (molto interessante per questi temi l’articolo della Marta Cioncoloni a proposito delle nuove forme artistiche che hanno ospitato/mostrato come associazione, forme che non esitano a contaminare linguaggi e orizzonti: non ho avuto modo di visitare la mostra, ma, in generale, mi pare che Uidù stia facendo un buon lavoro nella direzione che mi interessa qui.
Si tratta comunque di un’associazione con componenti di età media ancora piuttosto “alta” -30 anni-, quindi ancora inseriti nel paradigma definitorio di tipo “gutenberghiano” -per dirla à la McLuhan-. Il problema che mi interessa portare all’attenzione è articolato su due direttrici (sperando di riaprire un “vecchio” dibattito con Scattoni e Giulietti a proposito della scuola). Da un lato, assistiamo all’avvento di una generazione di giovani (14-17 anni) che, nati nell’universo digitale, ne sfruttano molto le caratteristiche senza preoccuparsi però del fondo/orizzonte teorico entro cui nasce e si sviluppa la tecnologia che usano (direi che sono degli utilizzatori scaltri ma cinicamente indifferenti, non per loro colpa, of course!). Questa generazione porta con sé un’idea di cultura ch’è peculiare e condivisa con i coetanei a livello internazionale: la cultura non è (più) un corpus di sapere (o saper fare) organizzato intorno ad un asse centrale riconosciuto, da costruire attraverso una navigazione faticosa e complessa, ma è un metodo di organizzazione di keywords, di parole chiave, che sempre più spesso sono sconnesse, non interrelate, occasionali e su cui sfugge qualsiasi possibilità di decidibilità circa il vero e il falso, oltre che qualsiasi possibilità di memorizzazione coerente (la scorribanda su wikipedia o chissa dove non lascia tracce mnestiche una volta che si sia conclusa).
Il principio-autore (cioè il soggetto organizzatore di un discorso del quale era responsabile e di cui rispondeva scientificamente) si trasforma in una sorta di blob collettivo che si riversa fuori dalla schermo e cui si reagisce in una maniera fideistica degna di migliori cause (se non fosse per l’intreccio potente di interessi economici che sono sotto a questo “volemose bene” planetario -di cui Google è stato il capofila-, direi che questa cieca fiducia sarebbe un bene). In questo senso, la scuola, come organismo di riproduzione del sapere sociale, resta attestata in una sorta di “terra di nessuno”: costretta ad adeguarsi a paradigmi che non le appartengono, finisce per essere goffa e quindi non credibile.
Terribile, la competizione tra l’accattivante, colorato richiamo della tecnologia e la grigia mattinata dell’interrogazione: non c’è battaglia. E però la metafora che possiamo usare è quella nautica del transatlantico scolastico –che offre una traversata oceanica (con i suoi momenti di noia e pur pericolosa)– contro il piccolo cutter della navigazione “a vista”, sotto costa: accattivante, non pericolosa (la costa e lì e basta tuffarsi per raggiungerla), ma incapace di “navigar per l’alto mare”. Ovvio, diranno i miei piccoli lettori J, sono ancora legato al paradigma della mia forma mentale. E sia. Cresciuti nell’universo occidentale, in cui è la parola a creare il mondo (letteralmente), in cui il segno finisce per prendere il posto dell’oggetto, abbiamo una struttura interpretativa del mondo in cui la stessa scienza cerca di tradurre in descrizioni esplicite –linguistiche, matematiche e simboliche– ciò ch’è implicito, nascosto nel mondo reale (il mondo come libro da interpretare, secondo la metafora quattrocentesca di Ramon Sibiuda nel suo Liber creaturarum, ripresa poi da Galilei).
Con l’avvento di internet, del web 2.0, assistiamo al ribaltamento del reale in virtuale: il reale finisce per diventare una modalità del virtuale. E’ la narrazione che se ne fa, a suscitare il mondo reale (lo sappiamo bene in Italia, e speriamo di non pagarne troppi dolorosi danni). Ma si tratta di un vortice di comunicazioni e di messaggi in cui il contatto immediato di tutti con tutti finisce per diventare ciarla, caratterizzata dalla sbrigatività, eccitazione e superficialità: l’ultimo trend è l’addio amoroso via sms. La massima facilità della comunicazione si correla al suo punto di minimo come strumento di rapporto sociale.
Abbiamo poi un altro arcipelago da tenere in conto quando parliamo di cultura ed è la cultura del territorio, l’idea della società della conoscenza; è una sorta di pendant della struttura che ho delineato sopra, ma comunque è molto interessante, in quanto recupera un altro aspetto della cultura della nostra contemporaneità: il meccanismo della mutua convertibilità. Due le caratteristiche principali del digitale: l’estrema facilità di convertibilità e l’ibridazione continua tra oggetti e pratiche, anzi la prima è presupposta dalla seconda. L’oggetto digitale è pervasivo, riguarda gli oggetti concreti come virtualizzazione ma anche le persone, la loro identità -ch’è tranquillamente convertibile in un’alterità talvolta assoluta (penso ai furti di identità, ma anche ai “travestimenti” su Second Life, ad es.)-. Il tutto si gioca in un contesto -si pensi a Facebook o Twitter– che è un modo di sistemazione dello spazio, una sorta di modalità di abitazione che, ancora, converte e prolunga reale e virtuale.
In questo senso, possiamo chiedere agli urbanisti uno sforzo di immaginazione per disegnare uno spazio urbano virtuale in cui vengono ad essere inter-cambiati (ma anche s-cambiati) spazi privati e pubblici, spazi ludici e spazi cultuali (il fenomeno sempre più diffuso dei predicatori on-line, ad es.), insomma, spazi marcati dai loro usi e dalle pratiche che vi si svolgono. Questi spazi sono ormai diventati, grazie al transito dei loro “utenti” (ma si possono ancora definire così?), un luogo di convergenza di sapere, comunicazione, socialità e informazione (si pensi alla circolazione della musica e dell’arte su internet). Si tratta di una modificazione antropologica ancora agli albori, di cui dobbiamo sottolineare due verbi caratterizzanti: aumentare e immergere.
Da ultimo -giuro non ne metto altri J- c’è ancora l’altro aspetto dell’ibridazione di materiale vivente e materiale elettronico: lo hardware si va sempre più miniaturizzando, ma incontra dei limiti fisici che sarà difficile superare (ad es., il problema del calore e della sua dissipazione) mantenendo lo stesso paradigma e potenza di computazione. Ma si stanno già sperimentando modelli alternativi in cui, al silicio, si sostituscono biomolecole, cellule, batteri e via andare, con ampie ricadute anche sulla nanomedicina (e noi ci preoccupiamo delle staminali, eh?). Siamo nel sogno dei padri di Google: la richiesta pensata viene soddisfatta come movimento sinaptico del proprio cervello, l’abbattimento magico della barriera tra domanda e offerta, in un delirio di connettività totale fuori dal tempo e dallo spazio. Per concludere (parzialmente e sperando di non aumentare la confusione): la nostra è una storia/cultura fatta di narrazioni (miti, edifici teologici e filosofici, teorie scientifiche ecc.) per poter giustificare il nostro essere qui, la drammatica atrocità alogica dell’essere qui in questo modo e in questo mondo.
Tutto questo è confluito in una sorta di grande memoria collettiva che, dinamicamente e soprattutto diacronicamente (il tempo, malgré nous!), ha costituito il fondamento della nostra civiltà. Questa memoria si sta appiattendo su un sempre-presente in cui gli attori non hanno ancora (almeno, non ne conosco) una narrazione di giustificazione per la propria esistenza e per anticipare il proprio futuro. Per esemplificare, farò ricorso alla vignetta della mamma che risponde al bambino: “ No, you were not downloaded. You were born”. Blogs, chats, social media ecc. sono forse un possibile scenario di narrazione fondativa, in positivo, o l’ultimo atto di una cultura al tramonto? Per dirla con un amico: oggi è la fine della Storia. Bene, ci vediamo domani a lezione.
Claudio, rischiamo di invischiarci in una discussione sul “grado zero” delle relazioni.
Il con-vivere implica e presuppone necessariamente un’idea di relazione (le “buone maniere”?, il “non fare agli altri ciò che non vorresti…”?, ecc.), quindi, in qualche modo, siamo oltre il semplice dato “fisiologico” della necessità dello stare insieme (per difenderci o aggredire, ad es.); questo lo possiamo chiamare cultura, cioè quell’insieme di pratiche e rituali che consentono di stare insieme senza (o poco) litigare. La stessa (ottima e, da me, moolto condivisa) scelta dei pici col sugo di nana è indice di una raffinata cultura gastronomica: il gusto non è uno scherzo e la commensalità, la con-divisione del pane e del vino, è forse la più alta manifestazione dell’idea di relazione umana (sfiora il divino, direi).
Sono largamente d’accordo con te, però, ripeto, siamo ancora in una zona grigia, di riflessione “a monte”: può esser tanto, visto che di queste cose non si parla mai o quasi, ma è anche troppo poco: senza prospettiva, finisce per diventare un esercizio sterile.
La mia proposta è una riflessione su (una fascia di) possibili interlocutori che (forse) sono già su un’altra dimensione: fare una prima analisi dei loro gusti è un modo per una forma di commensalità: posso invitarti a pranzo, ma, se la mia cucina ti rimane “pesa”, troverai sempre una buona scusa per non farti vedere.
@Enzo Sorbera. Insisto, la Civitas sono le persone che vivono insieme uno spazio. Che poi lo organizzino mediante mutevoli modalità culturali è vero ma secondario. Le culture passano, le persone restano. Anche se trapassano le generazioni, gli uomini cercano nelle culture la possibilità di vivere bene e di vivere bene insieme. La cultura serve a vivere bene! Se non si fa’ serva dell’uomo non serve a nulla! Ecco perchè stanno iniziando a implodere le culture individualistiche. Perchè ci hanno consegnato un mondo fatto di solitudini. Se si ha un’ idea abbastanza chiara di chi è l’ uomo si può comprenderne gli aneliti più profondi. Il Papa si è rivolto a tutti gli uomini ricordando loro che “Dio è amore” (1Gv 4,16), cioè relazione, per questo di Lui si afferma che non è solitudine ma Trinità. Se l’uomo è a sua immagine (Gn 1,27) in qualche modo anch’ egli è relazione. Dal mio punto di vista ogni cultura capace di cogliere questa verità va bene! Voglio dire che ha un futuro. Da Paolo VI in poi il Magistero cattolico ripete come una litania che il “dialogo” è a tutti i livelli il metodo della Chiesa. Resta difficile dialogare tra persone che usano codici comunicativi diversi, ma non impossibile! Per esempio a tavola davanti ad un bel piatto di pici con la nana, forse non si elabora un piano quinquennale, ma ci si può riconoscere come un “io” e un “tu” meritevoli di fiducia e possibili compagni di viaggio. Non pensare che questo esempio sia banale, la commensalità è un codice universale. Altri ce ne sono altrettanto incisivi. Il futuro non è perduto!
@Claudio Provvedi. La civitas è una maniera di organizzare il mondo, quindi è (un) prodotto culturale. Ci si dimentica che l’abitare e l’organizzazione dello spazio sono una sorta di incarnazione della corrispondenza tra umanità e divinità. La storia del giardino è emblematica, al proposito. Il vivere pieno, chi non lo vorrebbe? Ma cosa intendiamo e a chi parliamo quando avanziamo la nostra proposta? Il Papa, ultimamente, ha lanciato più di un segnale di attenzione all’idea di “uso” della terra ma a chi è rivolto il suo messaggio? In altre parole, se non identifichiamo i nostri destinatari, come riusciamo a parlare loro? Qual è il codice/la lingua che ci accomuna?
Apprezzo molto la tua domanda sull’idea di umanità, ma ci divide l’idea di provvidenza: la mia risposta, per te, è troppo “mondana”. Un uomo è fatto di carne ed ossa, è imperfetto, inadeguato al mondo: da questo si origina la scrittura. Un Dio non scrive romanzi.
Grazie per la fiducia Enzo! Io interloquisco volentieri. Nel rapporto Cultura/Civitas tutta la tua attenzione è posta sul versante cultura. Versante ad alto livello di variabilità e di incertezza. Seguendo il tuo discorso, pur interessante, si rischia di rimanere angosciati dall’ avanzare del futuro. Se invece si osservasse lo stesso rapporto a partire dalla Civitas, cioè dagli uomini in carne e ossa che la formano, pur con tutta la problematicità implicata, potremmo disporre almeno di qualche punto fermo in più. Nell’ uomo e in ogni uomo c’è sempre qualcosa che non muta e che resiste ai cambiamenti, alle culture e alle mode. Per esempio io credo che ognuno vorrebbe vivere in modo bello, pieno vero e appagante le proprie relazioni con l’ altro, con se stesso e con le cose. Faccio un passo ulteriore e pongo una domanda: “non è forse questa una delle componenti antropologiche fondamentali, un bisogno comune e essenziale su cui misurare ogni azione politica e/o culturale?”. Tutti quelli che vivono situazioni di emarginazione e solitudine esplicitano quanto sto dicendo. Dico questo non per confutarti ma per suggerirti un altro punto di aggressione del problema. Forse mi ripeto, ma voglio insistere: occorre ragionare a partire dalle persone e dai loro problemi fondamentali e non mi riferisco soltanto a quelli materiali, seppure ineludibili.
Si ma non dimentichiamoci che si tratta di un Blog su Internet e quindi ci sono dei limiti “oggettivi”. Se per i commenti devono valere i 400 caratteri, qualcosa di simile servirà anche per gli “articoli”, altrimenti questi diventerebbero corposi abstract di “saggi”….ma non mi sembra sia il caso. Se poi a qualcuno “scappa” proprio così, la si metta con un link a parte e la si presenti invece con sobrietà, lasciando a coloro che vogliono approfondire il passo successivo.
Per un diavolo di refuso, è venuto fuori un “gutenberghiamo” ch’è da intendersi gutenberghiano: il riferimento è a “Galassia Gutenberg” di Marshall McLuhan (ma qualcuno lo legge ancora?)
Si, sicuramente ho esagerato; ma è difficile per me tornare più volte su argomenti che sono strettamente interrelati e che, letteralmente, mi si rincorrono (ad es., l’utilizzo di materia vivente per la miniaturizzazione fa parte del dispositivo culturale “indifferente” che si sta delineando e che, francamente, mi fa un po’ schifo). Quando scrivo per il blog, lo faccio perché spero di ottenere chiarimenti da esperienze diverse, quindi, mostro il mio “laboratorio” piuttosto che fare l’articolo di informazione/divulgazione. Ma ho grande fiducia nei miei interlocutori 🙂
Enzo, a mio molto modesto avviso hai messo troppa carne al fuoco per un articolo di blog. Scomponendo l’articolo ed evitando le troppe citazioni di autori solo in parte conosciuti è difficile seguirti.
Potremmo per esempio approfondire l’dea di “technocampus”. Così tanto per iniziare.